Referendum: inaccettabile l’invito all’astensionismo

Domenica si terrà il referendum abrogativo sulla concessione delle estrazioni di idrocarburi in mare entro le 12 miglia marittime (circa 20 km dalla costa), ottenuto da nove Consigli regionali (di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) che hanno depositato le firme necessarie per la consultazione popolare. Il Governo ha stabilito in modo del tutto surrettizio e scorretto di non accorpare il referendum alle elezioni amministrative di inizio Giugno, non permettendo una campagna informativa sufficientemente lunga e, di conseguenza, sarà sicuramente maggiore la difficoltà per raggiungere il quorum, fissato al 50%+1 degli aventi diritto al voto; inoltre il costo di questa operazione di spachettamento raggiungerà una cifra enorme, ossia oltre 300 milioni di euro, un inaccettabile spreco di denaro pubblico, così come risulta decisamente grave e negativo, sotto il profilo istituzionale, l’invito all’astensione, quando, invece, era lo stesso Presidente del Consiglio, nonchè segretario del Pd, Matteo Renzi a richiedere a gran voce, nel 2011, l’Election Day (e, poi, criticare Bersani per non averlo ottenuto) per l’importante referendum abrogativo sull’acqua e sul nucleare. Lascia attoniti anche l’irruzione nella scena del Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano che, qualche giorno fa, ha dichiarato legittima, non una scelta incoerente con il dovere civico e non in contrasto con quanto riportato dall’articolo 48 della Costituzione repubblicana (cui recita che votare è un diritto e, appunto, un dovere) la posizione dell’astensione, in perfetta sintonia con il premier, nonostante entrambi dovrebbero essere i principali depositari delle regole democratiche. Sarebbero stati quanto meno apprezzabili, infatti, un impegno in senso opposto, che rimarcasse e non demolisse l’importanza della partecipazione popolare, costantemente in calo, e una coraggiosa battaglia a viso aperto, seppur per il “no”, accettando il rischio di sconfitta sul piano politico. Per questo, sul tema in questione, aumentano le distanze con la sinistra, in toto, con la minoranza dem, a cui si deve riconoscere il coraggio di aver rifiutato con decisione il diktat del segretario e di dissentire sulla furbesca linea di partito, e con il Governatore della Puglia, anch’esso del Pd, Michele Emiliano, da sempre contro le trivellazioni, che ha puntato il dito contro Renzi, definendolo come un venditore di pentole, il cui invito da pubblico ufficiale sarebbe potenzialmente sanzionabile per l’articolo 98 del testo unico del 1957, confermato dalla Cassazione nel 1985, che vieta la possibilità di indurre gli elettori all’astensione anche per quanto riguarda i referendum.

Recarsi alle urne significa, quindi, combattere il partito dell’astensione e della disinformazione, difendere lo strumento della consultazione popolare (tanto più se si considerano mai legittimate le riforme renziane, essendo stati stravolti il programma delle primarie Pd del 2013 e quello di Bersani con cui e per cui sono entrati in Parlamento i democratici) e cercare di impedire la riuscita del boicottaggio messo in atto da un Governo arrogante, che vive come un pericolo un esito referendario opposto a quello auspicato e preferisce non promuovere la democrazia per questo referendum sulle trivelle con il fine di evitare il pericolo di intralci ma non esita a fare campagna “pro domo sua” per quanto riguarda il referendum costituzionale dell’autunno prossimo (accusando, in modo palesemente incoerente e opportunista, come privi d’argomenti coloro che non voteranno), peraltro trasformato in senso personalistico da un primo ministro non all’altezza del ruolo che ricopre. Il motivo centrale, attorno a cui ruotano i molti altri, per non disertare le urne, però, rimane sempre e solo uno: sfruttare l’occasione per far sentire la propria voce e dimostrare che le scelte calate dall’alto, in questo caso quelle a vantaggio dei petrolieri, non sono accettate.

Votare SÌ per dire NO alle trivelle:

Entrando nel merito, il referendum coinvolge direttamente 21 concessioni (in corrispondenza a 43 piattaforme) che, in caso di vittoria del “sì”, non potrebbero più essere prorogabili (oggi possono essere prolungate fino all’esaurimento del giacimento). Una vittoria del fronte del No Triv non si tradurrebbe in un netto cambio di rotta sulle politiche ambientali (ambito in cui il Governo si è rivelato fallimentare, colpevole in primis di aver scritto il manifesto antiambientalista quale è il Decreto Sblocca Italia), come prospettato da alcuni, in quanto la reale forza del quesito non è particolarmente elevata, ma favorirebbe comunque, come passaggio successivo, investimenti maggiori nelle energie alternative e pulite in tempi più rapidi. Le prime falsità dei sostenitori del “no” o, peggio, di chi invita ad astenersi riguardano la maggiore dipendenza energetica dai paesi esteri, qualora si fermassero le trivelle, il pericolo immediato di perdita dei posti di lavoro (di cui, peraltro, non sappiamo il numero esatto) e l’assenza di tempo necessario per invertire la rotta in ottica verde: in realtà le trivellazioni riescono a coprire meno dell’1% del fabbisogno nazionale di petrolio (poco e di scarsa qualità) e del 3% di gas, in secondo luogo varie concessioni rimarrebbero in essere ancora dieci o, addirittura, diciotto anni (la prima scadrebbe nel 2017 e l’ultima nel 2034), quindi un ampio periodo utile per organizzare e compiere una necessaria e ambiziosa transizione energetica (favorendo un modello d’economia slegato dall’estrazioni di carbonio, come stabilito alla Cop21) e adeguatamente lungo per la ricollocazione dei lavoratori. Per giunta secondo quanto emerge dalla nuova edizione del National Solar Jobs Census, stilato dalla Solar Foundation, i posti di lavoro offerti dall’industria solare, in questo caso statunitense, sono nettamente superiori a quelli che derivano dall’estrazione di combustibili fossili. Certamente, poi, non risulterebbe una perdita rilevante il mancato introito da royalties, le cui aliquote di tassazione, per chi trivella in mare, sono sicuramente ridotte, tra le più basse al mondo: il 10%per il gas e il 7% per il petrolio, senza considerare le inconcepibili franchige e i notevoli incentivi indiretti; inoltre nel 2015 tutte le estrazioni, sia su mare che in terra, hanno prodotto un gettito da royalties pari a soli 352 milioni, ovvero cifra simile a quella sperperata dal Governo per aver rifiutato l’Election Day.

Fermare le trivellazioni significherebbe, dunque, per lo meno, eliminare, nelle fette di mare in questione, la presenza di sostanze chimiche scaturite dalle piattaforme, dannose per le biodiversità, infatti il reale impatto ambientale potrebbe essere notevolmente maggiore rispetto a quello segnalato dal Ministero dell’Ambiente, poichè le rilevazioni risultano non completamente trasparenti e, secondo quanto denunciato da Greenpeace, l’organo istituzionale chiamato a valutare i risultati del monitoraggio sul mare che circonda le piattaforme offshore, cioè l’Ispra, opera, paradossalmente, su committenza della società che possiede le piattaforme oggetto d’approfondimento ENI (secondo i risultati delle ricerche condotte, invece, dalla stessa ong Greenpeace e contenuti nel documento “Trivelle fuorilegge” i parametri ambientali stabiliti per legge sarebbero sforati vicino a oltre il 70% delle piattaforme). Lo stop alle trivelle permetterebbe, anche, di contrastare la subsidenza e l’erosione delle coste, ridurre a zero i rischi di disastri ambientali, seppur non troppo elevati (ma, comunque, non giustificabili) e, soprattutto, indurre il Governo a puntare su una graduale, ma di fondamentale importanza, riconversione energetica volta a tutelare l’ambiente e l’ecosistema e a scommettere su un modello di sviluppo sostenibile che combatta i cambiamenti climatici.

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Ttip: il trattato che sacrifica la democrazia

Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è un trattato in fase di negoziato tra Europa e Stati Uniti che ha lo scopo di abbattere le barriere tariffarie e quelle non tariffarie, ovvero le differenze nei regolamenti tecnici, negli standard applicati ai prodotti, nelle procedure d’omologazione, nelle regole sanitarie, nelle normative fitosanitarie e in altri spezzoni legislativi. Dell’accordo, però, sappiamo ben poco e l’accusa di poca trasparenza è sicuramente fondata, infatti le trattative continuano (il 27 febbraio a Bruxelles si è concluso il dodicesimo incontro) a porte chiuse e viene negata, con alto grado di segretezza, la conoscenza dell’effettivo procedere dei testi (vige il totale divieto di divulgazione), sacrificando la democrazia sull’altare del potere al più forte. Il Ttip influenzerà massicciamente le politiche del vecchio continente e le nostre vite perciò non è tollerabile la mancanza di un testo, accessibile alla cittadinanza, chiaro, dettagliato e aggiornato a seguito di ogni incontro, nè possono essere accettati provvedimenti calati dall’alto a vantaggio di pochi; inoltre risulta alquanto grave l’assenza di un vero dibattito sul tema nel nostro Paese (a causa della scarsissima informazione in merito), a differenza di quanto avvenuto in parecchi altri stati europei, come in Germania, in cui ad ottobre scorso si sono mobilitati duecentocinquantamila cittadini contro il trattato e la campagna di protesta “No Ttip” ha superato tre milioni e cinquecentomila adesioni. Qualora ci interrogassimo sul reale motivo della ridotta, se non nulla, trasparenza potremmo arrivare ad una conclusione simile a questa: il vero fine del pessimo trattato (cosiddetto di libero scambio, quando si tratta di selvaggio ultraliberismo) non sarebbe tagliare i dazi doganali residui, già particolarmente ridotti (e questa misura si rivelerebbe anche positiva), bensì potrebbe essere verosimile l’accusa secondo cui la reale intenzione sarebbe quella di spostare silenziosamente il potere decisionale dai cittadini e governi verso le grandi aziende multinazionali, alle quali, grazie all’arbitrato internazionale sugli investimenti (una sorta di tribunale speciale privato, chiamato ISDS), verrebbe garantita la possibilità, scavalcando le leggi nazionali e i Parlamenti, di ricorrere contro lo stato in cui si è investito nel caso questo compisse, mettendo a rischio il profitto dell’impresa, legittimi interventi volti alla tutela dei consumatori e alla regolamentazione dell’economia (per esempio, aumentando il salario minimo o la tassazione, alzando i parametri di salvaguardia ambientale o rafforzando le tutele dei lavoratori dipendenti) e la principale criticità è, appunto, legata alla natura vincolante dei termini dell’accordo. Inoltre il Ttip, sul fronte delle barriere non tariffarie, metterebbe a rischio le norme europee su OGM, etichettatura dei prodotti, clonazione animale e uso di pesticidi (negli USA la normativa vigente risulta molto meno restrittiva per i sopracitati, per esempio sono legali ottantadue antiparassitari banditi nell’UE), potrebbe permettere un’altra pratica diffusa negli States, ossia l’utilizzo di ormoni e promotori della crescita bovina, potenzialmente cancerogeni, e non è finita qui: potrebbero essere abbattuti, anche, i limiti sulle dannose tecniche di fracking per l’estrazione dei combustibili fossili e facilitati l’esportazione di petrolio da sabbie bituminose e l’uso di ingredienti nocivi, oggi vietati in Europa, per la composizione dei cosmetici, in quanto negli Stati Uniti il principio di precauzione non vale, infatti le sostanze chimiche sono considerate sicure fino a prova contraria, esattamente l’opposto di quanto accade in Europa (è chiaro, dunque, che il trattato indebolirebbe la stragrande maggioranza dei nostri standard a tutela dei cittadini). Un altro tasto dolente non può che essere la liberalizzazione dei servizi, che significherebbe aprirli alle logiche di mercato, mettere a rischio la loro universalità e spalancare le porte, inevitabilmente, alla loro privatizzazione, minando le pari opportunità e le garanzie sociali e ampliando le disuguaglianze. Proseguire in questa direzione, senza modificare alcunchè, sarebbe difficilmente giustificabile anche a seguito degli impegni presi al Cop 21 di Parigi sul fronte ambientale, in quanto un laissez-faire senza regolamentazione alcuna non può essere una scelta presa in ottica verde, quando riconversione ecologica dell’economia e rafforzamento dei parametri di salvaguardia ambientale dovrebbero essere messi al primo posto per arginare il gravissimo problema del surriscaldamento globale. Le alternative al Ttip, certamente, non potranno essere il protezionismo e l’isolamento economico, come auspicato dai fautori dell’autarchia, dimostratasi nel secolo scorso totalmente fallimentare, ma dovrebbe essere quella di garantire il libero mercato e l’interscambio ma senza ridurre le tutele alla popolazione o trascurare la difesa dell’ambiente; l’Europa solidale, unita e democratica sognata da Altiero Spinelli e ideata nel Manifesto di Ventotene non è, sicuramente, quella del Ttip così come impostato, per questo motivo è necessario invertire la rotta al più presto, cedendo sovranità per creare una vera federazione europea e non verso le multinazionali.

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Perchè è necessario ripensare la globalizzazione

Dalla grave crisi economica ai cambiamenti climatici e alla dilagante povertà nel Sud del mondo: la globalizzazione basata sul neoliberismo ha fallito?

Per globalizzazione intendiamo comunemente il processo d’integrazione culturale, sociale e, soprattutto, dei mercati economici di tutto il mondo, accelleratosi negli anni ’80, quando il neoliberismo, figlio dei governi Thatcher e Reagan, cominciava a prendere piede, e completato alla fine del secolo scorso su forte spinta del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) prima e della WTO (World Trade Organization) poi. La rivoluzione tecnologica e le grandi innovazioni hanno portato allla disintegrazione delle barriere spazio-temporali e hanno indotto ad un ineccepibile progresso sul piano culturale, fondato su radici cosmopolite necessarie per superare il fallimentare concetto d’autarchia, che ha caratterizzato la prima metà del ‘900. Il conseguente fenomeno della globalizzazione, così com’è stato impostato, si è rivelato positivo sul piano dell’integrazione  culturale, anche se dobbiamo limitare tale ragionamento solamente al Nord del mondo, mentre sul versante più importante, quello economico, solamente le grandi multinazionali hanno massicciamente beneficiato delle scelte adottate a livello mondiale (e le cause non sono state l’integrazione dei mercati e il sistema d’interscambio, ma l’egoismo delle nazioni più forti), non preoccupandosi della condizione della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud del mondo di profondo disagio economico, quando, invece, veniva prospettato (o, per meglio dire, promesso) dai suoi fautori un benessere comune maggiore, mentre la povertà, dati alla mano, è cresciuta; perciò il progresso sociale e culturale, nella direzione del multiculturalismo, cozza profondamente, invece, con l’ideologia della globalizzazione applicata all’economia, non sufficientemente regolamentata e fondata su un cieco e selvaggio liberismo, che ha posto solide basi (in particolare negli Stati Uniti), nel corso dei decenni precedenti al 2008, alla grande depressione economica che stiamo vivendo, a causa della concorrenza eccessiva (e sleale da parte delle multinazionali opportuniste) a scapito dei settori manifatturieri locali, dell’artigianato e delle medie e piccole imprese e dell’esagerata deregulation stabilita a livello generale dai vari governi, infatti, nel 2000, gli States fecero il passo decisivo verso la recessione proprio per l’esclusione dei prodotti derivati dalla regolamentazione, questa operazione fallimentare, in linea con molte altre (un secondo esempio può riguardare la decisione dell’allora Governo Clinton, nel ’99, di concedere alle società finanziarie Fannie Mae e Freddie Mac di sottoscrivere ipotetiche subprime per soddisfare le proprie obbligazioni immobiliari, permettendo loro la creazione di immensi castelli di sabbia senza fondamenta, che sarebbero potuti crollare, come poi effettivamente accaduto, da un momento all’altro), certifica con chiarezza che la finanza non si autoregolamenta (necessitando di un’efficiente supervisione degli organismi statali addetti e forti disincentivi ad operazioni rischiose che possono ripercuotersi su tutta la cittadinanza), come dichiarato anche dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco (non esattamente il primo degli antiliberisti) all’ultimo festival dell’economia di Trento, accusando il principio del totale laissez-faire. Risultano ulteriori fattori determinanti la scarsa attenzione alla coesione sociale (in termini di garanzie sociali, universalità dei servizi, pari opportunità ecc.) e la totale sostituzione dell’economia reale con la finanza (che non vanno assolutamente di pari passo), inoltre non bisogna dimenticare la pessima gestione della crisi da parte delle organizzazioni internazionali, Fondo Monetario in testa, preposte alle politiche monetarie e alla ristrutturazione del debito pubblico dei paesi in recessione, a cui hanno imposto esclusivamente misure d’austerity inadeguate e peggiorative della situazione (attuando misure restrittive, come robusti tagli ai servizi e aumenti d’imposte, tutto sulla testa dei cittadini). I dati, peraltro, delianeano un’ammimistrazione nella direzione assolutamente opposta alla solidarietà dei debiti dei paesi sottosviluppati, infatti con il rafforzamento del dollaro dell’inizio degli anni ’80 il debito di una nazione del cosiddetto Terzo Mondo sarebbe passato da 630 milioni di dollari a oltre 2 miliardi e 500 milioni di dollari (con un’incremento del tasso d’interesse dal 5% al 20%), quadruplicandosi, mentre sappiamo che l’impatto di una totale cancellazione a vantaggio dei maggiori indebitati sarebbe minimo per l’economia degli Stati Uniti e degli altri creditori, i quali non hanno mai stabilito di percorrere questa strada perchè, probabilmente, avrebbero perso, di fatto, il controllo sui loro mercati (verosimilmente il debito, difficilmente saldabile, potrebbe fungere da ricatto). L’errore più grave è stato, sicuramente, sovrapporre il sacrosanto concetto di libero mercato, sul quale si fonda una moderna democrazia, al liberismo senza regole (visto come unica alternativa agli effettivamente fallimentari comunismo e statalismo, senza considerare, per evidenti ragioni d’opportunismo, esportabili modelli economici potenzialmente più efficaci non in antitesi al capitalismo ma con più garanzie sociali, quindi socialdemocrazia e socioliberalismo in primis), quella reaganiana risulta un tipo d’economia che non si cura di chi ha un diritto in meno, in nessun campo, non sono alla base le pari opportunità (che permettono la vera meritocrazia) e in cui il potere è in mano al più forte, l’esempio lampante è stato il fatto di legittimare le multinazionali a sfruttare condizioni di tutela minima o nulla per i lavoratori, nonchè d’assenza dei sindacati, e, certamente, non sono andati nella giusta direzione i tanti accordi vincolanti siglati alla fine del secolo scorso finalizzati esclusivamente alla totale salvaguardia della produttività dell’azienda. Un’altra circostanza favorevole solo alle imprese transnazionali, a scapito del pianeta, riguarda la diffusa mancanza di parametri di salvaguardia ambientale nei paesi sottosviluppati (non a caso la Cina è diventata nell’arco di pochi anni, di gran lunga, il primo inquinatore, con il 30% delle emissioni globali), con il conseguente peggioramento della già gravissima situazione legata al surriscaldamento terrestre, non essendo state stabilite regole e diritti fondamentali comuni, che favorissero l’internazionalizzazione e offrissero alle grandi aziende la possibilità di delocalizzare, senza, però, aggravare il problema dei cambiamenti climatici e garantire ai lavoratori, universalmente, un salario e condizioni lavorative dignitosi, con il fine ultimo di favorire la riduzione delle enormi disuguaglianze nella crescita e nello sviluppo economico. Oggi un miliardo e 100 mila persone vivono con appena un dollaro al giorno, un miliardo (tra cui tantissimi minorenni) soffre di malnutrizione e fa rabbrividire sapere che un salario medio orario in Cina è pari a soli 17 centesimi: questi presupposti, considerando, inoltre, che il 20% della popolazione utilizza l’86% delle risorse mondiali, che negli ultimi quindici anni i fondi per la cooperazione allo sviluppo si sono ridotti dallo 0,35% allo 0,22% del Pil dei paesi OCSE e il costo di un cacciabombardiere equivale alla spesa per la costruzione di 40 mila farmacie in Burkina Faso o in Congo, ci spingono all’assoluta necessità di ripensamento del modello di sviluppo economico globale, alternativo al liberismo (richiesta contenuta anche nell’enciclica di Papa Francesco Laudato Sì, pubblicata a giugno scorso), ma che, ovviamente, non prescinda dal libero mercato, seppur debba essere più regolamentato e che, comunque, rifiuti con decisione ogni apertura ad un ritorno alle autarchie (non è più accettabile il discorso protezionismo) e all’idea d’isolamento dello stato-nazione; le vera sfide sarebbero democratizzare le organizzazioni internazionali, disincentivare le transazioni speculative, rivedere i piani di vendita e produzione della armi, opporsi alla privatizzazione dell’acqua, promuovere con convinzione i diritti umani e realizzare un piano comune e vincolante di riduzione delle emissioni inquinanti (sperando che l’accordo raggiunto alla Cop21 possa risultare, davvero, un punto di svolta), con i reali obiettivi di un cambio di rotta universale in un’ottica verde, ecologista, per un futuro sostenibile per i nostri figli, e solidale, atteaverso la riduzione delle disuguglianze nel Sud del mondo (e anche nel Nord, soprattutto negli States), attraverso un ampio e ambizioso progetto di investimenti mirati (tesi sostenuta dai più importanti economisti progressisti, come il nobel Joseph Stiglitz, Thomas Piketty o Jean-Paul Fitoussi), partendo da istruzione, sanità, reti idriche e servizi essenziali. Un’alternativa c’è sempre, chi lo nega mente.

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Cop21: ultima chiamata per salvare il pianeta

Mai come oggi il futuro del pianeta si trova ad un bivio e la Cop21 risulta l’ultima possibilità per salvarlo.

Il nostro futuro e, soprattutto, quello dei nostri figli è nelle mani di 150 leader riuniti a Parigi per la conferenza mondiale sui cambiamenti climatici, chiamata Cop21 essendo il ventunesimo tentativo di cambiamento, che ora dovrà essere, per forza, radicale (il summit, iniziato il 29 novembre, troverà conclusione l’11 dicembre). Non c’è scelta, come ci spiegano gli esperti del clima siamo arrivati ad un punto di non ritorno, dall’inizio della rivoluzione industriale, infatti, la concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica è aumentata del 40% a causa del massiccio uso di combustibili fossili, la concentrazione del gas metano si è alzata del 150% e la concentrazione del protossido d’azoto è cresciuta del 20%, e  per evitare l’aumento di danni irreversibili e catastrofi ambientali, entro il 2050, quando saremo in 9 miliardi, si dovranno ridurre, secondo le maggiori associazioni ecologiste, almeno dell’80% le emissioni globali di anidride carbonica e si dovrà restare sotto 1,5 gradi di surriscaldamento (inoltre secondo il climatologo Hansen l’unica soluzione sarebbe introdurre una tassa sui combustibili fossili), lasciando campo aperto alle energie alternative; è molto probabile, però, si possa raggiungere un’intesa per rimanere solamente entro i due gradi, che significherebbe, invece, una riduzione di emissioni pari al 50% e non garantirebbe sicurezza, tantomeno prosperità, soprattutto nel caso in cui l’accordo non fosse vincolante e si rivelasse inadeguata la somma stanziata per gli investimenti “verdi” nei paesi sottosviluppati (oppure mal monitorato il suo reale utilizzo), quindi le intenzioni potrebbero non tramutarsi in un cambio di rotta netto, tenendo presente chi storce il naso, in particolare l’India, che vorrebbe egoisticamente continuare ad aver mano libera sulla produzione di carbone e non vorrebbe perdere autonomia nelle scelte industriali (mettendo a rischio lo stesso tetto dei 2 gradi). La speranza, quindi, è che prevalga il buon senso e non si ricalchi il nulla di fatto, o quasi, all’indomani degli ultimi 20 summit, infatti nonostante gli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto del 1997, le emissioni mondiali complessive, invece di ridursi del 5% entro il 2012, come deciso, sono aumentate, tra il 1990 e il 2010, da 28,3 miliardi di tonnellate a 37,6, portando a toccare, nel 2014, il record delle temperature globali, con un aumento di 0,46 gradi rispetto al trentennio 1970-2000. I motivi principali per cui siamo arrivati a tanto sono essenzialmente due, ovvero una crescita scriteriata e un consumismo sregolato, frutto di mancanza totale di lungimiranza da parte della politica mondiale, infatti per anni la stragrande maggioranza dei governi ha assecondato quella che si sarebbe poi potuta rivelare una gravissima problematica, e della generale ricerca cieca ed egoista del solo profitto economico che cozza con la consapevolezza di ciò che si sarebbe lasciato in eredità alle nuove generazioni (la Terra era ritenuta una grande risorsa da sfruttare, in che modo e in che misure non interessava), per decenni si è permesso, nella parte di globo industrializzata, alle grandi imprese di fare, a livello d’inquinamento, il bello e il cattivo tempo. Inoltre una grande spinta ai processi di alterazione climatica (lo dimostra il dato inquitente della Cina, primo inquinatore con il 30% delle emissioni, aumentate vertiginosamente negli ultimi anni) è stata garantita con la scelta dell’integrazione dei mercati mondiali, ovvero la globalizzazione economica, senza aver stabilito regole basilari comuni, infatti in parecchi dei paesi in via di sviluppo in cui delocalizzano le multinazionali, oltre ad assere del tutto assenti le tutele e i diritti fondamentali dei lavoratori, non sono mai esistiti veri e propri piani di salvaguardia ambientale. La necessità di un progetto ambizioso che punti ad un ripensamento del modello di sviluppo mondiale in un’ottica verde (cioè investimenti globali nell’energia pulita, parametri stringenti antismog, meno trivellazioni, fine dei disboscamenti, protezione delle biodiversità, bonifica delle aree degradate), richiesta arrivata anche da Papa Francesco attraverso l’enciclica Laudato Si’ pubblicata il 18 giugno scorso, è dimostrata totalmente da una data, cioè 13 agosto 2015, giorno in cui erano finite le risorse terrestri per l’anno (per quanto riguarda il 2014 fu il 17 agosto), da allora stiamo consumando il capitale naturale che sarebbe servito in futuro, ma non può ch’esser ancora più triste scoprire che l’ultima volta che la popolazione mondiale riuscì a mantenere i propri consumi sfruttando le risorse terrestri annuali fu il 1970, ben 45 anni fa, quando la giornata del sovrasfruttamento cadeva il 31 dicembre. L’emblema principale di decenni di sfruttamento intensivo del pianeta rimane, senza dubbio, il disboscamento della Foresta Amazzonica (chiamata il polmone del mondo per la sua incredibile estensione, 7 milioni di km²), essendo stati distrutti, addirittura, più di 55 milioni di ettari della stessa, andando ad intaccare questa fondamentale riserva terrestre. Ormai non c’è più margine d’errore e non c’è più tempo, questa è l’ultima chiamata e #100%rinnovabile non dovrà rimanere più solo uno slogan, come richiedono i milioni di persone che si sono mobilitati in tutto il mondo il 29 novembre, è vostro dovere fare la scelta giusta, mettere l’ambiente al primo posto e cambiare il cupo destino a cui sta andando incontro il nostro pianeta. Sarete in grado?

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OGM: emblema di un profitto irresponsabile

Ciclicamente si riapre la discussione sugli OGM (organismi geneticamente modificati) e, in generale, sulle biotecnologie. La cosa molto grave è che prodotti OGM circolino in gran parte del mondo senza che sia ancora stata provata scientificamente la loro innocuità (lesionando totalmente la sicurezza alimentare e la tutela delle biodiversità) e potenzialmente possono creare danni irreparabili all’ecosistema (per esempio uno dei rischi per l’uomo puó essere lo sviluppo di particolari allergie e intolleranze alimentari o lo sviluppo di resistenza nei confronti di alcuni antibiotici provocata dagli OGM ). In Italia è possibile importarla, in molti casi inconsapevolmente in quanto in alcuni stati gli OGM vengono usati come mangimi e i prodotti derivati da questi animali sono indirettamente “contaminati”, anche se, almeno, è proibito coltivarli. È sicuro che chi sta guadagnando dalla coltivazione di OGM oggi sono le multinazionali, soprattutto americane, e i lati positivi (ben pochi) sono tutti a loro vantaggio. Infatti si muta il patrimonio genetico in laboratorio di un ortaggio, affinchè diventi più grande e/o più resistente alle basse temperature, di piante, affinchè siano meno esposte all’attacco di insetti o batteri, o anche di un animale, per far produrre più latte a una mucca o uova più grandi a una gallina, tutti esempi che portano alla concezione di chi trae i reali vantaggi dagli OGM. Secondo i sostenitori della manipolazione degli organismi questa pratica potrebbe definitivamente risolvere il problema della fame nel mondo, ma ovviamente capiamo che è assolutamente utopistico pensare che una multinazionale, che, paradossalmente, guadagna anche di più, in linea di massima, dalla vendita di un prodotto geneticamente modificato per il trattamento diverso, possa interessarsi alla sua vendita in aree povere. La branca della scienza che studia la genetica è forse la più delicata e fondamentale per la ricerca di medicinali e vaccini con lo scopo di migliorare la vita di tutti noi, ma  non si puó metterla a disposizione del profitto di pochi, mettendo a rischio tutto il resto. Il fatto che l’uomo possa manipolare e avere il controllo sulla natura è inquietante e molto pericoloso, in quanto le forzature in meccanismi perfetti sono, spesso, respinte. L’ambiente andrebbe tutelato, non messo a rischio. Inoltre se dovesse essere attuato il TTIP, il trattato di libero scambio in corso di negoziato dal 2013, tutta l’Unione Europea rischierebbe di dover aprire, in maniera massiccia, la propria economia agli OGM e, peraltro, all’utilizzo di dannosi ormoni nella carne. In Italia le associazioni e i partiti politici contro gli OGM sono vari: da Greenpeace e WWF a Legambiente, da SEL ai Verdi e ai movimenti No Global (oltre a molti altri). Quindi, per questa lunga serie di motivazioni, l’augurio è ad un ripensamento sulla diffusione che sembra sempre più rapida degli OGM (anche se, probabilmente, siamo arrivati ad un punto di non ritorno, purtroppo) e ad essere maggiormente prudenti, in futuro, su temi delicati come questo, senza avere alcun dubbio sul migliorare anziché rischiare di creare danni.

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