Europa: se non si cambia rotta si va a sbattere

Venerdì scorso abbiamo appreso la spiacevole notizia della vittoria dei pro-Brexit al Referendum per determinare la permanenza o meno della Gran Bretagna all’interno dell’Unione Europea, un pericoloso salto nel buio nonchè una svolta storica che determinerà, molto probabilmente, conseguenze negative soprattutto nel lungo periodo, sia sul fronte economico e sociale sia su quello politico. Per i britannici, ora, il rischio di una nuova e profonda recessione è reale, infatti secondo quanto riporta uno studio condotto dalla Bertelsmann Stiftung, in collaborazione con l’Ifo Institute di Monaco, il Brexit potrebbe arrivare a costare ai contribuenti inglesi addirittura oltre 310 miliardi di Euro (nel peggiore degli scenari si vedrebbe concretizzare una perdita pro capite di circa 1025 Euro), con il Pil in contrazione di ben 14 punti percentuali nell’arco di dodici anni. Le ragioni che hanno determinato tale risultato sono strettamente legate alla crescita delle disuguaglianze, alla scarsa attenzione verso la coesione sociale, a un’Unione che appare elitaria, lontana dai cittadini, e ad un disagio diffuso che risulta, evidentemente, terreno fertile per demagoghi e nazionalpopulisti e alimenta il desiderio di una profonda inversione di tendenza, che porta a correre il rischio di sprofondare maggiormente pur di rimescolare le carte in tavola. I vertici di Bruxelles saranno chiamati a prendere decisioni nette, infatti se non si stabilisse entro breve un radicale cambio di rotta si perderebbe, inevitabilmente, l’ultimo treno per scongiurare un fatale effetto a catena post Brexit e non potrebbe più essere arrestata la tragica disgregazione europea che stiamo vivendo, diretta conseguenza di un processo d’integrazione in stallo e rimasto letteralmente a metà, in quanto esiste una quasi completa unità sul versante monetario ma una sostanziale assenza di coesione su quello politico, da cui scaturisce l’inefficienza e debolezza dell’attuale impianto. Di certo siamo arrivati a questa grave situazione anche a causa delle politiche fallimentari avanzate dal PPE, della mancanza di una vera forza progressista transnazionale e della marcata subalternità del Partito Socialista Europeo alla destra, soggetto che non si incarica più di portare avanti le battaglie storicamente di sinistra (il caso Grecia, in particolare, fece emergere tutta l’arroganza e conservatorismo del loro leader Martin Schulz, che avrebbe preferito l’uscita dall’Euro da parte degli ellenici piuttosto che accettare richieste di ridimensionamento dei diktat della Troika). Ora più che mai, quindi, ci troviamo di fronte ad un bivio: la via indicata dai nazionalisti e populisti di tutto il Vecchio Continente, la più veloce ma che al contempo rappresenta una scelta miope e immensamente svantaggiosa, se non catastrofica, nell’era della globalizzazione, risulta quella del ritorno alle fallimentari autarchie d’inizio 900, ovvero isolamento, chiusura e definitivo abbandono del sogno europeo, mentre la strada ragionevole e auspicabile, che necessita tempo, impegno comune e forza di volontà per essere percorsa, è la realizzazione di un’Europa realmente unita, solidale e più democratica, che equivarrebbe al completamento dell’ambizioso, e incredibilmente lungimirante, progetto federalista di Altiero Spinelli. Il vero antidoto all’Europa della rigida e cieca austerity, degli egoismi nazionali, dell’intolleranza, dei muri e dei fili spinati, consisterebbe, infatti, nella cessione di sovranità da parte degli Stati membri sui vari ambiti politici ed economici verso l’unica istituzione europea democraticamente eletta dai cittadini, il Parlamento Europeo, oggi con competenze marginali di fronte allo strapotere della Troika (formata da Commissione Europea guidata da Juncker, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea) e nella revisione dei Trattati, allentando i vincoli più ferrei (soprattutto la riscrittura di quelli presenti nel Fiscal Compact), evidentemente dannosi, e concedendo una boccata di ossigeno, anche garantendo la possibilità di emettere Eurobond, ai paesi del Sud, i cosiddetti Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), tartassati da continui piani del tutto controproducenti e ingiusti di rigore, che inducono al taglio del welfare e che, quindi, ricadono, sempre, sulle spalle dei più deboli. È necessaria, dunque, un’Europa dal volto nuovo, che sappia allontanarsi dalle sole logiche neoliberiste, sia in grado di dare risposte, decida di stare dalla parte di chi ha un diritto in meno e proponga un coraggioso patto sociale, e che, dunque, metta in campo politiche attive e faccia robusti investimenti per ridurre la disoccupazione, sostenga le medie e piccole imprese e i settori manifatturieri locali, combatta con decisione la povertà, garantisca le pari opportunità e affronti il problema delle periferie abbandonate al degrado, si dimostri capillarmente organizzata e solidale nell’accoglienza dei profughi (fondamentale, per esempio, aprire corridoi umanitari) e dei migranti economici, avanzi efficaci progetti d’integrazione e si riveli realmente protagonista nella lotta ai cambiamenti climatici, attraverso un drastico ripensamento del modello di sviluppo in ottica verde; inoltre sarebbe indispensabile regolamentare la finanza, anche attraverso l’istituzione della Tobin Tax, e agire univocamente nell’interesse dei cittadini, impedendo nuove norme a vantaggio, in modo esclusivo, delle grandi lobby e interrompendo immediatamente le trattative per il TTIP (l’accordo di libero scambio in fase di negoziato con gli Stati Uniti, che ridurrebbe la maggioranza degli standard e parametri europei e metterebbe a rischio, tra le altre, la sicurezza alimentare), accusato di avere come unico e diabolico fine lo spostamento silenzioso del potere dai governi alle grandi multinazionali. I governi europei devono rendersi conto che questa è l’unica e l’ultima possibilità nella direzione del bene comune per non andare a sbattere, per non andare incontro alla dissoluzione dell’UE e per arginare derive nazionaliste e neofasciste, che si stanno trasformando in una grande marea nera pronta ad investirci, e, volenti o nolenti, serve un’urgente scatto europeista affinchè non risulti più pura utopia l’Europa designata nel Manifesto di Ventotene, che porterebbe notevoli svantaggi solo ai poteri forti e a chi ha tratto maggiori benefici dall’attuale sistema deficitario. O si riesce a formare una coalizione, spinta dal buonsenso, pronta a mettere solidarietà, integrazione e democrazia al primo posto oppure le prossime fughe dalla comunità e strappi su Schengen decreteranno, drammaticamente, la fine dell’Unione Europea.

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Islam e terrorismo: distinguere è un dovere

A meno di un anno dal drammatico atto terroristico nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo (7 gennaio), in cui furono assassinate dodici persone e furono gravemente colpite libertà di stampa e di satira, eccone messo in atto un altro, ancora a Parigi (per meglio dire altri, in simultanea), nel cuore di uno stato francese nuovamente ferito ma ancora in piedi. L’attacco terroristico di venerdì sera rappresenta il più cruento avvenuto in Europa dopo quello del 2004 a Beslan, in Russia (386 vittime e 730 feriti), infatti è davvero mostruoso il numero delle persone assassinate, cioè 129, e quello dei feriti, oltre duecento, i quali si trovavano allo Stade de France, per assistere all’amichevole Francia-Germania, all’interno del ristorante Perit Cambodge o dentro la sala da concerti Bataclan per assistere al concerto rock del gruppo musicale statunitense ‘Eagles of death metal’ (pare inoltre che le persone siano state atrocemente freddate una ad una). Non ci sono parole per definire la disumanità dell’accaduto e i messaggi di solidarietà e di vicinanza arrivati da ogni dove sono la vera risposta all’attacco, mentre l’altro lato della medaglia è rappresentato dagli islamofobi, ovvero chi sovrappone Islam e terrorismo, infatti fanno letteralmente rabbrividire la propaganda, del tutto fuori luogo, e lo “sciacallaggio” di gran parte destra ed estrema destra italiana, pronta a speculare sull’immenso dramma per accrescere il consenso, così come non si può che definire becera, ingiusta e d’estrema demagogia la prima pagina di sabato del giornale diretto da Belpietro, Libero Quotidiano (querelato per il titolo), che apostrofa in maniera spregevole i musulmani (si dissocia pure l’esponente di Forza Italia Romani), tutti indistintamente, come non distinse tra terroristi e islamici dopo l’attentato a Charlie Hebdo, infatti allora titolò “questo è l’Islam” (in troppi articoli, anche del Giornale, che descrive come assassina la fede musulmana, e del Foglio, viene considerato l’Islam il vero problema). Dobbiamo renderci conto che le organizzazioni terroristiche, che hanno precisi e inquietanti interessi, speculano sulla religione islamica e il Corano (nonostante il problema della molteplicità di interpretazioni, recita chiaramente nel versetto 32:5: “non uccidere, chiunque uccida un uomo, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera, chi ne abbia salvato uno sarà come se avesse salvato tutta l’umanità” mentre il versetto 256 sura 2 recita “non vi sia costrizione nella fede”, senza dimenticare i 100 versetti detti “della pace”) per indottrinare chi verrà poi arruolato e il legame tra terrorismo e religione, appunto, viene indotto, perciò il nesso tra cultura e violenza viene appositamente creato e la fede sarà il pretesto per uccidere, farsi saltare in aria o sgozzare e sappiamo bene, invece, che la stragrande maggioranza dei musulmani, primi (Siriani e Iraqeni Sciiti e Sunniti) tra le vittime dell’is e pure i primi a combatterlo (il popolo curdo), condanna il fondamentalismo. Non dimentichiamoci, inoltre, che il poliziotto che perse la vita sotto la redazione di Charlie Hebdo era musulmano, così com’è di fede islamica Safer, un cameriere d’un ristorante parigino, che venerdì ha salvato due donne ferite negli attentati in città trascinandole dentro al locale in cui lavora per soccorrerle. L’Unione Europa dovrà essere più che mai unita (così come dovrà essere la rete d’intelligence delle varie nazioni) per combattere efficientemente il terrorismo, poichè non può essere utile e non deve essere una soluzione plausibile quella di isolarsi e chiudere le frontiere, ugualmente non potrà essere condivisibile un’eventuale sensibile riduzione generale della privacy e l’utilizzo delle intercettazioni (visto che sono sotto gli occhi di tutti i gravissimi risvolti del controllo di massa negli Stati Uniti con i vari scandali dell’NSA) per il contrasto al terrorismo, rischiando di trasformare un’operazione di questo tipo in un pericolosissimo boomerang (bisognerà rafforzare le misure di sicurezza, soprattutto nei punti maggiormente a rischio, spingere per la costituzione di un governo di solidarietà nazionale in Libia pronto a fronteggiare la drammatica situazione e ci dovrà essere una reazione organizzata sul fronte siriano: la soluzione più efficace, purtroppo utopistica a causa della centinaia di miliardi che muove, sarebbe un ripensamento a livello mondiale riguardo i piani di produzione e di vendita d’armi). Dunque all’interno dell’UE non dovranno essere messi in discussione i valori basilari della società occidentale, come la libertà di culto, il rispetto di quello altrui e l’accoglienza di profughi disperati seppur di diverso credo (purtroppo molte, troppe, persone stanno accusando di buonismo l’occidente per aver concesso troppa democrazia e libertà), invece dovranno essere rafforzati, magari, i progetti d’integrazione, e sarà fondamentale non fomentare la paura nei confronti dei musulmani, indistintamente, e degli immigrati poichè si rivelerebbe un errore fatale, oltre che un’abnorme ingiustizia. Il più grande regalo che possiamo fare all’is, infatti, è proprio considerare tutti i musulmani nostri nemici e potenziali kamikaze o tagliagole, l’islamofobia è un potente alleato dei terroristi, quindi distinguere è un dovere. Stringiamoci tutti intorno alla Francia e a Parigi e cerchiamo di rialzarci, ma auguriamoci anche che il cieco antislamismo e la xenofobia non abbiano la meglio.

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La pessima trovata di alzare il limite del contante

Secondo il ministro dell’Interno Angelino Alfano il Governo promuoverebbe iniziative di centrodestra: per una volta non si può che essere d’accordo!

Martedì è stata approvata alla Camera l’importante (e sacrosanta come primo passo verso l’inclusione sociale) legge sulla cittadinanza italiana ai nati da immigrati nel nostro Paese, cioè lo Ius Soli “temperato”, ma è stato anche (e soprattutto) il giorno della nuova trovata del premier Matteo Renzi, guarda a caso totalmente anomala alla tradizione del centrosinistra, di aggiungere alla Legge di Stabilità l’aumento della soglia dell’uso del contante da mille a tremila euro, soddisfacendo la richiesta dell’alleato Nuovo Centrodestra (stessa proposta fatta anche da Forza Italia e altre liste di destra).

“Gli altri paesi europei hanno la soglia più alta!” Questa era l’obiezione più comune del fronte contrario al tetto finora in vigore, molto debole e superficiale in quanto l’Italia non può essere paragonata alla maggioranza degli altri paesi, trovandosi sul podio europeo per evasione fiscale e corruzione, che equivalgono rispettivamente alle cifre monstre di 120 e 60 miliardi di euro annui (180 miliardi che ricadono sulle spalle degli onesti), infatti il “nero” vale circa il 17% del totale del nostro PIL; inoltre è del tutto errato il riferimento al “tetto” francese fatto dal Presidente del Consiglio per dare credito alla proposta che sarà a breve concretizzata, poichè nella medesima nazione la soglia è stata fissata (regola entrata in vigore a Settembre) a mille euro. Chiaramente contraria alla nuova norma la senatrice democratica Maria Cecilia Guerra, vice-Ministro del Lavoro del Governo Letta, la quale spiega che aumentare la soglia dell’uso del contante equivarrà a favorire evasione, corruzione, riciclaggio e autoriciclaggio, anzichè contrastarli con decisione (come ci direbbe il buonsenso), e rappresenterà una grave regressione su un tema così importante. Sulla linea della compagna di partito troviamo Pierluigi Bersani, che boccia totalmente la mossa del Governo, ritenendo che non possiamo prendere la stessa medicina di un paese che non è malato e che il rischio di incentivare i consumi in nero è certificato, in primis, dall’Agenzia delle Entrate. Oltre a ciò va aggiunto che non c’è alcuna prova che la novità possa favorire i consumi in quanto, oggi, la carta di credito non può rappresentare un ostacolo per coloro che devono effettuare un acquisto da migliaia di euro (verrebbero dei dubbi se lo fosse) e poi sorge spontaneo un interrogativo: quante persone girano con una tale cifra in tasca? L’aspettativa delusa di una nuova e potente strategia sul fronte del contrasto all’evasione aveva fatto già discutere ad Agosto ma, ora, questa trovata vede tutto il fronte socialdemocratico decisamente contrario, dalla minoranza dem in toto (D’Attore sempre più vicino alla scissione) ai soggetti a sinistra del partito di Renzi, insieme ad importanti economisti, come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, e alle associazioni Federconsumatori e Adusbef, le quali definiscono l’ipotesi di triplicare il tetto del tutto immotivata e fuori luogo. Sicuramente sarebbe andata a vantaggio di tutti i cittadini e dell’Erario, invece, una scelta che andasse nella direzione opposta, cioè l’abbattimento dei costi delle transazioni finanziarie attraverso carta di credito, per incentivare il suo utilizzo, e l’introduzione di forti agevolazioni fiscali per i commercianti che utilizzano il POS (per contrastare l’evasione si sarebbe dovuto riaprire anche il capitolo “contrasto d’interessi”).

La norma, quindi, rischia di diventare un grande favore agli evasori e se la tattica fosse proprio cercare consenso tra questi, e non si stesse trattando di una mossa soltanto ingenua, il disgusto sarebbe immenso. Questa pessima modifica si aggiunge ad una serie incredibile di riforme più che discutibili, sperando che la lista non culmini con quella che sarebbe l’agghiacciante decisione di dare via libera alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina; Alfano e Verdini se la ridono, perchè sanno bene che Renzi ha spazzato via il centrosinistra e l’ha ridotto ad un piccolo gruppetto di parlamentari.

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La becera intolleranza di Orbán

In Siria ci sono migliaia di persone che ogni giorno si preparano a scappare dalle bombe, dal terrorismo, da una guerra che ha fatto più di 200 mila vittime e da uno scenario che cancella totalmente il termine “futuro”; sono state costrette a fuggire, dal 2011, circa nove milioni di persone, disperati, tra questi tantissimi bambini e adolescenti, con la speranza di arrivare sani e salvi a destinazione e di una vita serena altrove.

Gli accaduti dei giorni scorsi in Ungheria e le decisioni prese dal presidente di estrema destra Viktor Orbán, pensando al sanguinoso e lugubre scenario da cui scappano i siriani, risultano incredibilmente disumane, fondate su una pura intolleranza e su beceri neonazionalismo e xenofobia. Sconvolgente che centinaia di profughi, nelle ultime ore, non essendogli stato riconosciuto tale status, siano stati arrestati per clandestinità (ritenuti criminali per essere scappati da una guerra?!), così come l’annuncio dello stesso Orbán (che sta mettendo in pratica, purtroppo, ciò che ha dichiarato lo scorso anno, cioè che non riconosce più come fondamentale risultare una democrazia liberale) di costruire un altro muro al confine con la Croazia. Intanto continuano l’uso della forza e di spray urticanti da parte delle forze armate sui profughi, bambini inclusi, che protestano (peraltro letteralmente e barbaramente trattati come bestiame, essendo stati costretti, qualche giorno fa, ad accalcarsi per prendere al volo due o tre pezzi di pane lanciati dall’esercito) e dimostrazioni profondamente razziste, quali lo sgambetto della reporter Petra Lazslo ai migranti in fuga e l’affissione di un manifesto ad Asotthalom, al confine con la Serbia, che avvertiva del rischio contagio da immigrato, attraverso il contatto con gli oggetti da loro lasciati. Orbán e il suo Governo dimenticano però (o, probabilmente, ignorano) che nel 1956, quando l’Unione Sovietica invase l’Ungheria, circa 250 mila persone si rifugiarono e trovarono accoglienza in tutt’Europa, mentre ora, a parti invertite, il rifiuto alle quote europee di immigrati (per non parlare del ripudio all’idea del diritto d’asilo comune) e la non solidarietà sono totali e con sfumature e derive molto preoccupanti. A braccetto con l’Ungheria nella ripugnante lotta contro l’accoglienza dei profughi ci sono Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca (dove fino a qualche giorno fa marchiavano i profughi), paradossalmente anch’esse caratterizzate, in passato, da grandi emigrazioni e oggi ancorate ad un nazionalismo autarchico che esclude radicalmente l’idea di una società multiculturale, cozzando con gli ideali di un’Europa unita e solidale; quest’ultima, purtroppo, com’era pensata nel Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, appare ancora piuttosto difficile da realizzare (nonostante ciò occorre, comunque, insistere, senza alcun dubbio, sul versante integrazione europea poichè l’alternativa sarebbe solo quella del ritorno a fallimentari autarchie, appunto, sullo stile ungherese) e la resistenza dei paesi dell’Est rimarca la difficoltà ad unire e superare finalmente fastidiosi egoismi nazionali riguardo varie materie che impediscono anche solo l’idea degli Stati Uniti d’Europa, ma, mentre con la Grecia si è arrivati (ingiustamente) fino in fondo, l’opposizione alle iniziative di Orbán è stata, forse, troppo debole, soprattutto (ancora una volta) da parte del Partito Socialista Europeo.

Davanti ad un profugo Orbán mette un muro (oltre che gli infiniti muri mentali), un filo spinato, ma se fosse in Siria, sotto le bombe, magari, con i propri figli, non scapperebbe?!

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L’austerity vince ancora

La politica fallimentare di solo rigore dell’ex Troika continua ad essere imposta

Il referendum del 5 luglio, in cui ha trionfato il “NO” alle proposte di sola austerity dei creditori, per molte persone avrebbe rafforzato la posizione del capo del governo Alexis Tsipras all’interno della trattativa, o per lo meno era una speranza. Lo scenario del compromesso doloroso (forse dolorosissimo), nonostante il risultato del referendum (che ha irrigidito maggiormente Merkel e co.), che non è stato preso, ingiustamente, in considerazione dai creditori, si è, purtroppo per il popolo greco, concretizzato (come spiegavo quanto fosse probabile in un articolo post οχι). Tsipras ha dovuto per forza cedere alle condizioni, ancora una volta pesanti e ingiuste, dei creditori, che erano state rifiutate dal popolo greco, poichè, incredibilmente, negli ultimi giorni non preoccupava più eccessivamente lo scenario che avrebbe previsto l’uscita della Grecia dall’Euro (l’integralista ministro delle finanze tedesco ha addirittura proposta il Grexit per cinque anni) per chi risiedeva dalla parte opposta del tavolo delle trattative (i capi di governo di 10 stati, altamente irresponsabili, tra cui Belgio, Paesi Bassi, Finlandia e, appunto, Germania non si sarebbero opposti ad un eventuale Grexit e, forse, lo speravano pure) e se il leader di Syriza avesse rifiutato il piano propostogli questa via si sarebbe concretizzata (il capo del governo ellenico ha voluto da subito scartare l’opzione del ritorno alla Dracma per le conseguenze sicuramente peggiori rispetto alle richieste dei creditori). Entrando nel dettaglio, il piano dell’Unione Europea (accordo raggiunto dalle due parti dopo 17 ore di trattativa) prevede un ampio pacchetto di riforme che Tsipras dovrà mettere in campo in soli tre giorni, dall’aumento dell’IVA, anche sui beni di prima necessità al taglio graduale di quella “mini” per le isole e dall’aumento dell’età pensionabile, dal taglio ai contributi statali per l’aumento delle pensioni minime e dal disincentivo al pensionamento anticipato alla privatizzazione della rete elettrica, alla reintroduzione dei licenziamenti collettivi e al forte aumento delle tasse (soprattutto di quelle sulle imprese e sui beni di lusso), tutto ciò in cambio del terzo salvataggio da 86 miliardi e l’eventuale rimodulazione della scadenza del pagamento dei debiti, solo a riforme attuate. Questo piano è l’esatta copia di quelli già imposti, durante gli anni passati, dalla Troika con conseguenti risultati pessimi (dopo i gravi errori economici commessi in passato dalla classe dirigente greca) che, uniti all’incapacità dei governi ellenici di attuare riforme indispensabili, hanno portato alla contrazione del PIL del 25%, al crollo del 33% dei consumi, all’aumento del rapporto debito pubblico/pil dal 112,5% al 180% (mentre lo scopo sarebbe stato contenerlo), all’aumento della disoccupazione dal 9% al 25%, alla riduzione delle pensioni del 48% e dei salari del 37%, all’universalità del sistema sanitario non più garantita, al licenziamento di una miriade di statali e al pagamento dei dipendenti pubblici (coloro che sono scampati ai licenziamenti) addirittura, in alcuni casi, in buoni pasto; potremmo dire che “quando una cura sbagliata continua ad essere somministrata ad un malato grave, quest’ultimo rischia di morire”, infatti le nuove misure rischiano di dare il colpo finale ad un’economia già disastrata. L’Unione Europea continua la propria serie di politiche ingiuste, fondate sul solo e spietato rigore, senza preoccuparsi di crescita e occupazione, e finchè non invertirà rotta, mettendo solidarietà e integrazione al primo posto (con lo scopo finale della creazione degli Stati Uniti d’Europa) è destinata a rimanere inefficiente e a disgregarsi. L’austerity vince ancora (anche se la prima sconfitta, per le proposte, dovrebbe essere l’UE), ma Alexis Tsipras non esce sconfitto (anche se il suo governo rischia di cadere, visto che il presidente del consiglio greco viene accusato da alcuni contestatori di aver tradito il mandato del referendum), perchè ha fatto degli errori ma sicuramente il possibile per evitare una nuova mazzata, alla fine, però, ha dovuto cedere (continuare a portare avanti la linea dello scontro avrebbe portato inevitabilmente al Grexit), costretto da continui ricatti ingiustificabili; forse il risultato del referendum si è rivelato una sorta di vittoria di Pirro ma ha aperto una grande riflessione che ha coinvolto tutto il vecchio continente, ora abbiamo la consapevolezza che la strada per un’altra Europa è lunga e molto tortuosa, però questa esiste e anche il governo italiano guidato da Renzi ha responsabilità se finora questa non è stata percorsa (completamente ininfluente nella situazione greca), così come le ha il principale partito socialdemocratico (o almeno così dovrebbe essere il PSE) guidato da Martin Schulz, che non si è opposto alla linea dell’austerity e della sua connazionale Merkel, anzi si è schierato pesantemente contro a colui che l’ha combattuta, Tsipras. Per ora possiamo rimarcare la nostra solidarietà nei confronti del popolo greco e sperare in colpi di scena che portino ad un’Europa diversa.

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Il sogno di Altiero Spinelli: gli Stati Uniti d’Europa

L’Unione Europea così com’è non funziona e la situazione greca ne è un esempio lampante. Questa è l’UE degli interessi   finanziari dei paesi potenti (la Germania della cancelliera Merkel in primis), della Troika, degli egoismi, dei muri e delle barriere, del solo rigore e dei vincoli (del Fiscal Compact, del tetto del 3% deficit/pil e del pareggio di bilancio). Negli anni ’40 (durante il periodo di confino) nell’isola di Ventotene, nel Mar Tirreno, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni scrissero il Manifesto di Ventotene, un documento che promuoveva l’unità europea; l’idea era un’Europa libera e unita, ma il loro progetto, nonostante siano trascorsi da allora più di 70 anni, è stato concretizzato solo parzialmente. In tutto il vecchio continente, oggi, avanzano i partiti populisti, antieuro ed euroscettici, che presentano il nazionalismo (maggiore sovranità nazionale e meno Europa) come alternativa vincente all’inefficienza dell’Unione, puntando alla sua dissoluzione. Dentro una cornice di globalizzazione, in cui sono integrati i mercati mondiali e gli Stati Uniti sono la prima potenza, sarebbe impensabile la strada del ritorno alle fallimentari autarchie dell’inizio del ‘900, per questo l’altra faccia della medaglia e, probabilmente, la strada da percorrere migliore per tutti è il completamento del progetto federalista di Altiero Spinelli. La costruzione degli Stati Uniti d’Europa e la cessione di sovranità da parte dei singoli stati verso le istituzioni democratiche europee (oggi i poteri del Parlamento europeo e dell’Alto rappresentante degli esteri sono minimi) forse risultano un’utopia e probabilmente l’egoismo di pochi stati li rendono impossibili, eppure sarebbero il vero cambiamento (con la c maiuscola) e la svolta a beneficio di tutti (“l’unione farebbe la forza”). Dovrebbe essere subito riaperto il dibattito per la scrittura della Costituzione europea (idea resistita fino al 2009, cioè al rifiuto da parte di Francia e Paesi Bassi, poi abbandonata), mentre sono necessari provvedimenti per riorganizzare la Banca Centrale Europea, affinchè ponga come obiettivi occupazione e crescita, oltre a quello della stabilità dei prezzi, per l’estensione dei poteri del Parlamento europeo, per arrivare, finalmente, all’unione bancaria, per la coesione delle politiche estere e rigurdanti l’immigrazione, per la realizzazione di un esercito europeo (con ingenti risparmi per i singoli stati sulle spese per la difesa) che promuova pace e nonviolenza, per una politica industriale integrata, per la possibilità di emettere eurobond e per la costituzione di un fondo di debiti comune (tutto questo anche attraverso la revisione di ogni trattato). Molti di questi punti da attuare sono stati ribaditi come fondamentali anche nell’appello firmato dal premio Nobel nel 2001 Stiglitz e dall’economista Piketty (insieme a molti altri intelletuali e politici, per lo più progressisti) e pubblicato sul Financial Times, in cui veniva chiesto all’Unione Europea di evitare ad ogni costo l’uscita della Grecia dall’Eurozona e di invertire la rotta sulle politiche di sola austerity. La strada per un’Unione Europea solidale, libera e unita è ancora lunga e in salita, ma desidero fortemente, un giorno non troppo lontano, potermi ritenere davvero cittadino europeo. Gli egoismi nazionali vinceranno ancora a lungo??

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Grexit sempre più vicino, per l’UE sarebbe un fallimento

Entro giovedì dovremmo conoscere il futuro della Grecia: sarà ancora all’interno della moneta unica? In caso dovesse saltare definitivamente il negoziato con i creditori per il paese ellenico sarebbe default. Il capo del governo, e primo esponente di Syriza, Alexis Tsipras e il ministro delle finanze Yanis Varoufakis continuano a rifiutate le proposte di Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale (il più intransigente) e Banca Centrale Europea poichè vorrebbero dire nuovi tagli ad un welfare già quasi distrutto, quindi, anche alle pensioni, e aumenti alle imposte, riduzione dei salari e del disavanzo primario del Paese, riproponendo il piano fallimentare della troika (nel 2012 il memorandum salvò dal default ma lega le mani ai greci fino al 2050), così come vengono rifiutate dalla parte opposta le controproposte (i greci accetterebbero la metà delle richieste in cambio della ristrutturazione del debito). La non solidarietà dei tedeschi è del tutto espressa dal fatto che più della metà dei cittadini e oltre il 40% dei manager vorrebbe la Grecia fuori dall’Eurozona (forse anche il ministro Schaeuble, che si è molto irrigidito dopo il rifiuto greco alle sue ultime proposte) e dicono un no secco ad ogni nuovo piano di aiuti agli elleni, nonostante sarebbero in cambio di garanzie e forti sacrifici per continuare a saldare i debiti (Varoufakis e co. dovranno reperire quasi 27 miliardi nei prossimi sette mesi). L’uscita dall’Euro obbligata (se non si flessibilizzano le richieste la scelta sarà tra l’impoverire i cittadini greci immediatamente o l’impoverirli maggiormente nel tempo) significherebbe l’aggravarsi nel medio periodo di una situazione disperata, visto il vortice inflazione-svalutazione in cui entrerebbe la “riscoperta” Dracma e le risorse completamente finite. Secondo lo statunitense premio Nobel per l’economia nel 2001 Joseph Stiglitz “Grexit” indurrebbe una reazione a catena per cui le prossime ad essere soffocate da una maggiore austerità e su cui comincerebbero le speculazioni sarebbero Spagna e Italia (comunque più ricche, e in condizioni di ripresa, seppur minima e poco sentita) ed è un’errorre clamoroso quello commesso dall’UE di riproporre il piano fallimentare di sola austerità imposto dalla Troika, le cui misure hanno fatto contrarre del 25% il PIL greco e non hanno portato ad alcun risultato, se non quello di sopprimere e uccidere un’economia nel nome del rigore. Insieme a molti altri economisti, intelletuali e politici, come Piketty e D’Alema, Stiglitz ha firmato un appello, pubblicato sul Financial Time, che chiede all’UE di evitare, a tutti i costi, l’uscita della Grecia dall’Euro, che ha “sapore” di fallimento della stessa unione monetaria, e la sollecita a cambiare strategia e direzione, per dare la possibilità ai paesi più in difficoltà di crescita e ripresa economica, attraverso una condivisibilissima riforma dell’Eurozona che allenti l’austerity, dia la possibilità di emettere Eurobond ai paesi europei e alla riorganizzazione della BCE, affinchè si ponga come obiettivi, non solo la stabilità dei prezzi (come accaduto finora), ma qualche occupazione e, appunto, crescita; le altre importanti proposte spiegate nell’appello sono l’unione bancaria, garanzie uniche sui depositi e una politica industriale integrata. Sicuramente in passato  chi ha guidato la Grecia ha commesso degli errori gravissimi nella gestione del bilancio e nelle politiche economiche per arrivare ad un rapporto debito/pil a circa il 180%, però se dovvesse accadere l’insperato sarà l’Unione Europea a dare il colpo finale all’economica ellenica, le responsabilità maggiori saranno le sue, delle sue politiche di sola e spietata austerità in cui la solidarietà (su cui dovrebbe essere fondata) è sempre al secondo (terzo, quarto…) posto (probabilmente l’unione monetaria è arrivata troppo presto rispetto ad un’integrazione su molti altri aspetti, come l’unione bancaria) e gli interessi delle nazioni più potenti al primo, mentre in molti campi il Parlamento europeo ha pochissimo peso (l’attualissimo tema dell’emergenza immigrazione ne è la dimostrazione) . La colpa non potrà essere accollata all’irresponsabile, così definito da alcuni creditori, Tsipras, arrivato al timone di una nave ormai quasi del tutto affondata ed era inevitabile il fatto che non avrebbe potuto realizzare la maggior parte delle proposte fatte in campagna elettorale (che possiamo definire parzialemte populiste). L’Unione Europea deve invertire la rotta, puntando a integrazione, politiche espansive e solidarietà, così come dovrà essere riformata la BCE, esattamente come proposto da Stiglitz e co. Non è giusto che la Grecia per salvare la parte di nave ancora a galla, debba dire addio alla parte affondata (gli statali che non sono stati colpiti dallo sciame di licenziamenti degli ultimi anni vengono pagati con ritardi di mesi e mesi, molti lavoratori sono stipendiati in buoni pasto e uno su tre prende 300 euro al mese, la povertà è sempre crescente, le pari opportunità non garantite, la sanità è stata privatizzata, tutto ciò per pagare i debiti e sopravvivere). L’Europa che vogliamo è diversa, è vicina ai cittadini, unita e democratica.

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Lo spettro del TTIP che incombe sulla nostra economia

Sul TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti), probabilmente, si arriverà ad un accordo finale tra UE e USA entro la fine dell’anno (decisione presa dal G7 svolto in Baviera). Ma che cosa è, di preciso, e cosa comporterà l’attuazione del contenuto del TTIP?  Innanzitutto il TTIP è un accordo commerciale di libero scambio (una maxi liberalizzazione) in corso di negoziato tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti dal luglio del 2013. Lo scopo è quello di integrare i due mercati, attraverso la riduzione dei dazi doganali, l’eliminazione delle barriere non tariffarie, cioè ogni differenza in regolamenti, norme e procedure standard applicate ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie, e lo smaltimento di tutti gli altri ostacoli al commercio. Verrebbero anche eliminati i sussidi pubblici, liberalizzati gli appalti e ridotte le barriere nei servizi e ci dovrà essere piena collaborazione su temi di interesse comune (lavoro, energia, medie e piccole imprese, combustibili fossili). Un economista che si è sempre dichiarato fermamente contrario al trattato è il premio Nobel per l’economia nel 2001 Joseph Stiglitz; quest’ultimo, infatti, crede che, in realtà, il TTIP non sia un accordo di libero scambio ma di gestione della nostra economia da parte degli Stati Uniti, a scapito dei cittadini europei (e- dice- anche di quelli americani) in quanto verrà a mancare la tutela dei diritti dei consumatori e ci sarà una riduzione di garanzie. Anche uno studio della Tufts University del Massachusetts mette in forte discussione i presunti impatti positivi sull’economia del trattato; infatti rivela che l’attuazione del TTIP provocherebbe disarticolazione del mercato europeo, depressione della domanda interna e conseguente diminuzione del PIL europeo. Infatti gli unici che trarranno sicuramente vantaggi saranno le multinazionali americane (ovviamente a scapito dell’artigianato locale e dei prodotti tipici delle varie zone). Con l’attuazione del trattato tra USA e Unione Europea verrà messa a rischio la sicurezza alimentare in Europa: negli USA è diffuso il commercio di OGM (Organismi Geneticamente Modificati), dei quali non è ancora scientificamente provata la non dannosità, così come sono utilizzati ormoni e promotori della crescita bovina, considerati cancerogeni. Verranno messi a rischio beni comuni (come acqua, telecomunicazioni ed energia) e servizi pubblici (sanità, trasporti pubblici e istruzione), sui quali ci sarà sempre di più una spinta verso la privatizzazione e la loro universalità sarà messa a rischio dal business. Si metterà in discussione la tutela dell’ambiente poichè saranno ridotti i parametri di salvaguardia e si diffonderanno pratiche di estrazione del petrolio (fracking) altamente inquinanti. Per quanto riguarda l’Italia non verranno più tutelati made in Italy e prodotti tipici, oltre alle piccole aziende che verrebbero schiacciate dalle grandi multinazionali; potrebbe non essere più obbligatorio indicare l’origine geografica dei prodotti. Sui diritti dei lavoratori alcuni paesi europei dovranno fare un passo indietro, riducendoli, essendo negli USA minori rispetto a tanti altri stati, così come per quanto riguarda le politiche di tutela della privacy. Potrebbero diminuire i salari e ridursi la coesione sociale. La trasmissione Report ha dedicato al trattato in questione una puntata nell’ottobre del 2014, nella quale sono stati approfonditi molti dei fattori di criticità, tra cui il fatto che il suo contenuto risulta parzialmente sconosciuto. Per i motivi elencati in precedenza la nostra economia e le nostre vite cambieranno, molto probabilmente in negativo; l’augurio è quello che si cambi idea (anche il governo italiano) prima che sia troppo tardi: diritti e ambiente non vengono al secondo posto, e questo dobbiamo (e soprattutto coloro che lo stanno firmando) ricordarlo.

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UE e FMI restano intransigenti: Grecia ad un passo dal default

Le politiche intransigenti, il rifiuto a trattare da parte dei creditori esteri e i vincoli ferrei imposti dall’Unione Europea fanno la prima vittima, infatti la Grecia è ormai ad un passo dal default e dall’uscita dall’Euro. Secondo il ministro dell’economia e delle finanze Yanis Varoufakis e  secondo il 70% degli elleni l’obbligata uscita dalla moneta unica sarebbe una catastrofe e il colpo finale per un’economia al collasso. L’ipotesi si sta concretizzando in quanto la Grecia non ha il miliardo e seicento milioni da restituire al Fondo Monetario Internazionale, la cui linea è ancora più rigida rispetto a quella di BCE e Unione Europea. La permanenza della Grecia nell’Euro si sta per chiudere con un rapporto debito/pil oltre il 177% (circa 325 miliardi di debito pubblico), un tasso di disoccupazione incredibile, del 25,7% (oltre il 100% più alto di quello italiano) e un aiuto minimo ricevuto dall’UE, che ha preferito il declino greco piuttosto che allentare la pressione e cercare di ridare ossigeno alla sua economia. Il declino e l’affondamento della nave di cui Alexis Tsipras e Varoufakis sono i piloti, che non possono dare ordini ma solo riceverli, era altamente prevedibile, vista la carenza di risorse e l’impossibilità di attuazione di politiche improntate alla crescita. Da subito presidente del consiglio e ministro dell’economia hanno avuto le mani legate, essendo state respinte tutte le richieste da loro avanzate, quindi il loro fallimento è solo secondario (le loro idee comunque erano irrealizzabili già dall’inizio), la maggior parte delle responsabilità del declino greco sono di UE e FMI. Da qui deve partire una grande riflessione sul significato di Unione, la solidarietà non puó non essere alla base di una solida unione. L’UE non puó e non deve essere questa: troppi poteri a pochi stati potenti e sciagura certa per chi è in difficoltà economica. L’UE non puó essere solo Fiscal Compact, pareggio di bilancio e vincolo del 3%. Ora bisogna cambiare verso: integrazione e solidarietà, per crescita e sviluppo comuni.

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