Europa: se non si cambia rotta si va a sbattere

Venerdì scorso abbiamo appreso la spiacevole notizia della vittoria dei pro-Brexit al Referendum per determinare la permanenza o meno della Gran Bretagna all’interno dell’Unione Europea, un pericoloso salto nel buio nonchè una svolta storica che determinerà, molto probabilmente, conseguenze negative soprattutto nel lungo periodo, sia sul fronte economico e sociale sia su quello politico. Per i britannici, ora, il rischio di una nuova e profonda recessione è reale, infatti secondo quanto riporta uno studio condotto dalla Bertelsmann Stiftung, in collaborazione con l’Ifo Institute di Monaco, il Brexit potrebbe arrivare a costare ai contribuenti inglesi addirittura oltre 310 miliardi di Euro (nel peggiore degli scenari si vedrebbe concretizzare una perdita pro capite di circa 1025 Euro), con il Pil in contrazione di ben 14 punti percentuali nell’arco di dodici anni. Le ragioni che hanno determinato tale risultato sono strettamente legate alla crescita delle disuguaglianze, alla scarsa attenzione verso la coesione sociale, a un’Unione che appare elitaria, lontana dai cittadini, e ad un disagio diffuso che risulta, evidentemente, terreno fertile per demagoghi e nazionalpopulisti e alimenta il desiderio di una profonda inversione di tendenza, che porta a correre il rischio di sprofondare maggiormente pur di rimescolare le carte in tavola. I vertici di Bruxelles saranno chiamati a prendere decisioni nette, infatti se non si stabilisse entro breve un radicale cambio di rotta si perderebbe, inevitabilmente, l’ultimo treno per scongiurare un fatale effetto a catena post Brexit e non potrebbe più essere arrestata la tragica disgregazione europea che stiamo vivendo, diretta conseguenza di un processo d’integrazione in stallo e rimasto letteralmente a metà, in quanto esiste una quasi completa unità sul versante monetario ma una sostanziale assenza di coesione su quello politico, da cui scaturisce l’inefficienza e debolezza dell’attuale impianto. Di certo siamo arrivati a questa grave situazione anche a causa delle politiche fallimentari avanzate dal PPE, della mancanza di una vera forza progressista transnazionale e della marcata subalternità del Partito Socialista Europeo alla destra, soggetto che non si incarica più di portare avanti le battaglie storicamente di sinistra (il caso Grecia, in particolare, fece emergere tutta l’arroganza e conservatorismo del loro leader Martin Schulz, che avrebbe preferito l’uscita dall’Euro da parte degli ellenici piuttosto che accettare richieste di ridimensionamento dei diktat della Troika). Ora più che mai, quindi, ci troviamo di fronte ad un bivio: la via indicata dai nazionalisti e populisti di tutto il Vecchio Continente, la più veloce ma che al contempo rappresenta una scelta miope e immensamente svantaggiosa, se non catastrofica, nell’era della globalizzazione, risulta quella del ritorno alle fallimentari autarchie d’inizio 900, ovvero isolamento, chiusura e definitivo abbandono del sogno europeo, mentre la strada ragionevole e auspicabile, che necessita tempo, impegno comune e forza di volontà per essere percorsa, è la realizzazione di un’Europa realmente unita, solidale e più democratica, che equivarrebbe al completamento dell’ambizioso, e incredibilmente lungimirante, progetto federalista di Altiero Spinelli. Il vero antidoto all’Europa della rigida e cieca austerity, degli egoismi nazionali, dell’intolleranza, dei muri e dei fili spinati, consisterebbe, infatti, nella cessione di sovranità da parte degli Stati membri sui vari ambiti politici ed economici verso l’unica istituzione europea democraticamente eletta dai cittadini, il Parlamento Europeo, oggi con competenze marginali di fronte allo strapotere della Troika (formata da Commissione Europea guidata da Juncker, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea) e nella revisione dei Trattati, allentando i vincoli più ferrei (soprattutto la riscrittura di quelli presenti nel Fiscal Compact), evidentemente dannosi, e concedendo una boccata di ossigeno, anche garantendo la possibilità di emettere Eurobond, ai paesi del Sud, i cosiddetti Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), tartassati da continui piani del tutto controproducenti e ingiusti di rigore, che inducono al taglio del welfare e che, quindi, ricadono, sempre, sulle spalle dei più deboli. È necessaria, dunque, un’Europa dal volto nuovo, che sappia allontanarsi dalle sole logiche neoliberiste, sia in grado di dare risposte, decida di stare dalla parte di chi ha un diritto in meno e proponga un coraggioso patto sociale, e che, dunque, metta in campo politiche attive e faccia robusti investimenti per ridurre la disoccupazione, sostenga le medie e piccole imprese e i settori manifatturieri locali, combatta con decisione la povertà, garantisca le pari opportunità e affronti il problema delle periferie abbandonate al degrado, si dimostri capillarmente organizzata e solidale nell’accoglienza dei profughi (fondamentale, per esempio, aprire corridoi umanitari) e dei migranti economici, avanzi efficaci progetti d’integrazione e si riveli realmente protagonista nella lotta ai cambiamenti climatici, attraverso un drastico ripensamento del modello di sviluppo in ottica verde; inoltre sarebbe indispensabile regolamentare la finanza, anche attraverso l’istituzione della Tobin Tax, e agire univocamente nell’interesse dei cittadini, impedendo nuove norme a vantaggio, in modo esclusivo, delle grandi lobby e interrompendo immediatamente le trattative per il TTIP (l’accordo di libero scambio in fase di negoziato con gli Stati Uniti, che ridurrebbe la maggioranza degli standard e parametri europei e metterebbe a rischio, tra le altre, la sicurezza alimentare), accusato di avere come unico e diabolico fine lo spostamento silenzioso del potere dai governi alle grandi multinazionali. I governi europei devono rendersi conto che questa è l’unica e l’ultima possibilità nella direzione del bene comune per non andare a sbattere, per non andare incontro alla dissoluzione dell’UE e per arginare derive nazionaliste e neofasciste, che si stanno trasformando in una grande marea nera pronta ad investirci, e, volenti o nolenti, serve un’urgente scatto europeista affinchè non risulti più pura utopia l’Europa designata nel Manifesto di Ventotene, che porterebbe notevoli svantaggi solo ai poteri forti e a chi ha tratto maggiori benefici dall’attuale sistema deficitario. O si riesce a formare una coalizione, spinta dal buonsenso, pronta a mettere solidarietà, integrazione e democrazia al primo posto oppure le prossime fughe dalla comunità e strappi su Schengen decreteranno, drammaticamente, la fine dell’Unione Europea.

dalla parte del progresso AA99

Perchè è necessario ripensare la globalizzazione

Dalla grave crisi economica ai cambiamenti climatici e alla dilagante povertà nel Sud del mondo: la globalizzazione basata sul neoliberismo ha fallito?

Per globalizzazione intendiamo comunemente il processo d’integrazione culturale, sociale e, soprattutto, dei mercati economici di tutto il mondo, accelleratosi negli anni ’80, quando il neoliberismo, figlio dei governi Thatcher e Reagan, cominciava a prendere piede, e completato alla fine del secolo scorso su forte spinta del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) prima e della WTO (World Trade Organization) poi. La rivoluzione tecnologica e le grandi innovazioni hanno portato allla disintegrazione delle barriere spazio-temporali e hanno indotto ad un ineccepibile progresso sul piano culturale, fondato su radici cosmopolite necessarie per superare il fallimentare concetto d’autarchia, che ha caratterizzato la prima metà del ‘900. Il conseguente fenomeno della globalizzazione, così com’è stato impostato, si è rivelato positivo sul piano dell’integrazione  culturale, anche se dobbiamo limitare tale ragionamento solamente al Nord del mondo, mentre sul versante più importante, quello economico, solamente le grandi multinazionali hanno massicciamente beneficiato delle scelte adottate a livello mondiale (e le cause non sono state l’integrazione dei mercati e il sistema d’interscambio, ma l’egoismo delle nazioni più forti), non preoccupandosi della condizione della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud del mondo di profondo disagio economico, quando, invece, veniva prospettato (o, per meglio dire, promesso) dai suoi fautori un benessere comune maggiore, mentre la povertà, dati alla mano, è cresciuta; perciò il progresso sociale e culturale, nella direzione del multiculturalismo, cozza profondamente, invece, con l’ideologia della globalizzazione applicata all’economia, non sufficientemente regolamentata e fondata su un cieco e selvaggio liberismo, che ha posto solide basi (in particolare negli Stati Uniti), nel corso dei decenni precedenti al 2008, alla grande depressione economica che stiamo vivendo, a causa della concorrenza eccessiva (e sleale da parte delle multinazionali opportuniste) a scapito dei settori manifatturieri locali, dell’artigianato e delle medie e piccole imprese e dell’esagerata deregulation stabilita a livello generale dai vari governi, infatti, nel 2000, gli States fecero il passo decisivo verso la recessione proprio per l’esclusione dei prodotti derivati dalla regolamentazione, questa operazione fallimentare, in linea con molte altre (un secondo esempio può riguardare la decisione dell’allora Governo Clinton, nel ’99, di concedere alle società finanziarie Fannie Mae e Freddie Mac di sottoscrivere ipotetiche subprime per soddisfare le proprie obbligazioni immobiliari, permettendo loro la creazione di immensi castelli di sabbia senza fondamenta, che sarebbero potuti crollare, come poi effettivamente accaduto, da un momento all’altro), certifica con chiarezza che la finanza non si autoregolamenta (necessitando di un’efficiente supervisione degli organismi statali addetti e forti disincentivi ad operazioni rischiose che possono ripercuotersi su tutta la cittadinanza), come dichiarato anche dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco (non esattamente il primo degli antiliberisti) all’ultimo festival dell’economia di Trento, accusando il principio del totale laissez-faire. Risultano ulteriori fattori determinanti la scarsa attenzione alla coesione sociale (in termini di garanzie sociali, universalità dei servizi, pari opportunità ecc.) e la totale sostituzione dell’economia reale con la finanza (che non vanno assolutamente di pari passo), inoltre non bisogna dimenticare la pessima gestione della crisi da parte delle organizzazioni internazionali, Fondo Monetario in testa, preposte alle politiche monetarie e alla ristrutturazione del debito pubblico dei paesi in recessione, a cui hanno imposto esclusivamente misure d’austerity inadeguate e peggiorative della situazione (attuando misure restrittive, come robusti tagli ai servizi e aumenti d’imposte, tutto sulla testa dei cittadini). I dati, peraltro, delianeano un’ammimistrazione nella direzione assolutamente opposta alla solidarietà dei debiti dei paesi sottosviluppati, infatti con il rafforzamento del dollaro dell’inizio degli anni ’80 il debito di una nazione del cosiddetto Terzo Mondo sarebbe passato da 630 milioni di dollari a oltre 2 miliardi e 500 milioni di dollari (con un’incremento del tasso d’interesse dal 5% al 20%), quadruplicandosi, mentre sappiamo che l’impatto di una totale cancellazione a vantaggio dei maggiori indebitati sarebbe minimo per l’economia degli Stati Uniti e degli altri creditori, i quali non hanno mai stabilito di percorrere questa strada perchè, probabilmente, avrebbero perso, di fatto, il controllo sui loro mercati (verosimilmente il debito, difficilmente saldabile, potrebbe fungere da ricatto). L’errore più grave è stato, sicuramente, sovrapporre il sacrosanto concetto di libero mercato, sul quale si fonda una moderna democrazia, al liberismo senza regole (visto come unica alternativa agli effettivamente fallimentari comunismo e statalismo, senza considerare, per evidenti ragioni d’opportunismo, esportabili modelli economici potenzialmente più efficaci non in antitesi al capitalismo ma con più garanzie sociali, quindi socialdemocrazia e socioliberalismo in primis), quella reaganiana risulta un tipo d’economia che non si cura di chi ha un diritto in meno, in nessun campo, non sono alla base le pari opportunità (che permettono la vera meritocrazia) e in cui il potere è in mano al più forte, l’esempio lampante è stato il fatto di legittimare le multinazionali a sfruttare condizioni di tutela minima o nulla per i lavoratori, nonchè d’assenza dei sindacati, e, certamente, non sono andati nella giusta direzione i tanti accordi vincolanti siglati alla fine del secolo scorso finalizzati esclusivamente alla totale salvaguardia della produttività dell’azienda. Un’altra circostanza favorevole solo alle imprese transnazionali, a scapito del pianeta, riguarda la diffusa mancanza di parametri di salvaguardia ambientale nei paesi sottosviluppati (non a caso la Cina è diventata nell’arco di pochi anni, di gran lunga, il primo inquinatore, con il 30% delle emissioni globali), con il conseguente peggioramento della già gravissima situazione legata al surriscaldamento terrestre, non essendo state stabilite regole e diritti fondamentali comuni, che favorissero l’internazionalizzazione e offrissero alle grandi aziende la possibilità di delocalizzare, senza, però, aggravare il problema dei cambiamenti climatici e garantire ai lavoratori, universalmente, un salario e condizioni lavorative dignitosi, con il fine ultimo di favorire la riduzione delle enormi disuguaglianze nella crescita e nello sviluppo economico. Oggi un miliardo e 100 mila persone vivono con appena un dollaro al giorno, un miliardo (tra cui tantissimi minorenni) soffre di malnutrizione e fa rabbrividire sapere che un salario medio orario in Cina è pari a soli 17 centesimi: questi presupposti, considerando, inoltre, che il 20% della popolazione utilizza l’86% delle risorse mondiali, che negli ultimi quindici anni i fondi per la cooperazione allo sviluppo si sono ridotti dallo 0,35% allo 0,22% del Pil dei paesi OCSE e il costo di un cacciabombardiere equivale alla spesa per la costruzione di 40 mila farmacie in Burkina Faso o in Congo, ci spingono all’assoluta necessità di ripensamento del modello di sviluppo economico globale, alternativo al liberismo (richiesta contenuta anche nell’enciclica di Papa Francesco Laudato Sì, pubblicata a giugno scorso), ma che, ovviamente, non prescinda dal libero mercato, seppur debba essere più regolamentato e che, comunque, rifiuti con decisione ogni apertura ad un ritorno alle autarchie (non è più accettabile il discorso protezionismo) e all’idea d’isolamento dello stato-nazione; le vera sfide sarebbero democratizzare le organizzazioni internazionali, disincentivare le transazioni speculative, rivedere i piani di vendita e produzione della armi, opporsi alla privatizzazione dell’acqua, promuovere con convinzione i diritti umani e realizzare un piano comune e vincolante di riduzione delle emissioni inquinanti (sperando che l’accordo raggiunto alla Cop21 possa risultare, davvero, un punto di svolta), con i reali obiettivi di un cambio di rotta universale in un’ottica verde, ecologista, per un futuro sostenibile per i nostri figli, e solidale, atteaverso la riduzione delle disuguglianze nel Sud del mondo (e anche nel Nord, soprattutto negli States), attraverso un ampio e ambizioso progetto di investimenti mirati (tesi sostenuta dai più importanti economisti progressisti, come il nobel Joseph Stiglitz, Thomas Piketty o Jean-Paul Fitoussi), partendo da istruzione, sanità, reti idriche e servizi essenziali. Un’alternativa c’è sempre, chi lo nega mente.

dalla parte del progresso AA99

Il sogno di Altiero Spinelli: gli Stati Uniti d’Europa

L’Unione Europea così com’è non funziona e la situazione greca ne è un esempio lampante. Questa è l’UE degli interessi   finanziari dei paesi potenti (la Germania della cancelliera Merkel in primis), della Troika, degli egoismi, dei muri e delle barriere, del solo rigore e dei vincoli (del Fiscal Compact, del tetto del 3% deficit/pil e del pareggio di bilancio). Negli anni ’40 (durante il periodo di confino) nell’isola di Ventotene, nel Mar Tirreno, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni scrissero il Manifesto di Ventotene, un documento che promuoveva l’unità europea; l’idea era un’Europa libera e unita, ma il loro progetto, nonostante siano trascorsi da allora più di 70 anni, è stato concretizzato solo parzialmente. In tutto il vecchio continente, oggi, avanzano i partiti populisti, antieuro ed euroscettici, che presentano il nazionalismo (maggiore sovranità nazionale e meno Europa) come alternativa vincente all’inefficienza dell’Unione, puntando alla sua dissoluzione. Dentro una cornice di globalizzazione, in cui sono integrati i mercati mondiali e gli Stati Uniti sono la prima potenza, sarebbe impensabile la strada del ritorno alle fallimentari autarchie dell’inizio del ‘900, per questo l’altra faccia della medaglia e, probabilmente, la strada da percorrere migliore per tutti è il completamento del progetto federalista di Altiero Spinelli. La costruzione degli Stati Uniti d’Europa e la cessione di sovranità da parte dei singoli stati verso le istituzioni democratiche europee (oggi i poteri del Parlamento europeo e dell’Alto rappresentante degli esteri sono minimi) forse risultano un’utopia e probabilmente l’egoismo di pochi stati li rendono impossibili, eppure sarebbero il vero cambiamento (con la c maiuscola) e la svolta a beneficio di tutti (“l’unione farebbe la forza”). Dovrebbe essere subito riaperto il dibattito per la scrittura della Costituzione europea (idea resistita fino al 2009, cioè al rifiuto da parte di Francia e Paesi Bassi, poi abbandonata), mentre sono necessari provvedimenti per riorganizzare la Banca Centrale Europea, affinchè ponga come obiettivi occupazione e crescita, oltre a quello della stabilità dei prezzi, per l’estensione dei poteri del Parlamento europeo, per arrivare, finalmente, all’unione bancaria, per la coesione delle politiche estere e rigurdanti l’immigrazione, per la realizzazione di un esercito europeo (con ingenti risparmi per i singoli stati sulle spese per la difesa) che promuova pace e nonviolenza, per una politica industriale integrata, per la possibilità di emettere eurobond e per la costituzione di un fondo di debiti comune (tutto questo anche attraverso la revisione di ogni trattato). Molti di questi punti da attuare sono stati ribaditi come fondamentali anche nell’appello firmato dal premio Nobel nel 2001 Stiglitz e dall’economista Piketty (insieme a molti altri intelletuali e politici, per lo più progressisti) e pubblicato sul Financial Times, in cui veniva chiesto all’Unione Europea di evitare ad ogni costo l’uscita della Grecia dall’Eurozona e di invertire la rotta sulle politiche di sola austerity. La strada per un’Unione Europea solidale, libera e unita è ancora lunga e in salita, ma desidero fortemente, un giorno non troppo lontano, potermi ritenere davvero cittadino europeo. Gli egoismi nazionali vinceranno ancora a lungo??

dalla parte del progresso AA99

L’Italia fuori dall’Euro: il catastrofico scenario

La situazione tragica della Grecia riapre il dibattito sulla moneta unica a livello europeo: i partiti nazionaliti, populisti e euroscettici tornano alla carica, accusando l’Euro come la principale causa dei problemi economici dei paesi in crisi e pensando che l’unica soluzione per la ripresa possa essere l’uscita dall’Eurozona. Per la maggior parte degli economisti italiani (Tito Boeri, Visco e Bini Smaghi tra gli altri) l’uscita dall’Euro sarebbe il colpo finale per la nostra economia. M5S, Lega e Fratelli d’Italia, dichiaratamente a favore del ritorno alla lira, citano spesso, come fonti più che autorevoli, alcuni premi nobel per l’economia (come Stiglitz) o altri famosi economisti (Fitoussi in primis) anche se, in realtà, questi personaggi hanno contestato, fin dall’inizio, il fatto che l’integrazione monetaria fosse stata troppo rapida rispetto all’integrazione politica e bancaria e, inoltre, le loro critiche si concentrano soprattutto sui vincoli troppo rigidi e il mancato intervento dell’UE in aiuto dei paesi più in difficoltà economica, ma non vedono come ricetta infallibile per ripresa quella dell’uscita, di un singolo stato, dalla moneta unica. Lo scenario di un’uscita dell’Italia dall’Euro sarebbe per molti economisti (secondo Romano Prodi, fautore della moneta unica, sarebbe un suicidio) simile a questo: nel periodo di transizione, che non può essere immediato, vi sarebbero forti spinte alla fuga di calitali all’estero dettate dalla paura di vedere i propri risparmi convertiti in una moneta destinata a svalutarsi; nell’immediato l’impatto sul mercato della nuova (in realtà vecchia) moneta svalutata incrementerebbe la competitività, ma nel medio periodo il tutto sarebbe compensato dall’aumento dell’inflazione, così come la monetizzazione del debito pubblico porterebbe ad un aumento della quantità di moneta, che produrrebbe un ulteriore appesantimento dell’inflazione; inoltre se i titoli pubblici nella nuova lira, svalutata, emessi sul mercato internazionale, non potessero essere ridenominati, il debito pubblico crescerebbe, perché parte di esso resterebbe in euro e si rivaluterebbe rispetto alla moneta italiana; anche le importazioni diventerebbero più care e aumenterebbero i prezzi interni e le aziende si preoccuperebbero più della competizione con quelle estere, a scapito della produttività. Per questi e altri motivi di natura economica l’uscita dall’Euro dell’Italia genererebbe uno scenario nettamente peggiore di quello attuale. Il vero  cambiamento, infatti, deve partire dall’Unione Europea; il vero problema sono i vincoli ferrei e l’incompletezza del processo d’integrazione, le idee primordiali della costituzione europea e della creazione Stati Uniti d’Europa non sono portata avanti da troppo tempo, e la solidarietà verso i paesi più in crisi deve essere alla base di qualsiasi unione. La BCE dovrebbe diventare come la Federal Reserve, in grado di concedere prestiti d’ultima istanza, e, cedendo più sovranitá dalle banche nazionali, rilanciare l’economia, partendo dai paesi con più disoccupazione e con il debito pubblico più alto, attraverso investimenti diretti mirati. Bisognerebbe ritornare a parlare di Eurobond, in grado di alleggerire il peso dei debiti pubblici, che verrebbero messi in comune, di vari paesi. Bisogna, insomma, ripartire dall’idea di Altiero Spinelli di un’Europa libera e unita (manifesto di Ventotene).

dalla parte del progresso AA99