La democrazia secondo Matteo

Secondo quanto riportato dagli ultimi dati forniti dalla società di rilevazioni Geca, il premier Renzi da solo ha potuto parlare, a Giugno, durante i telegiornali più di tutta l’opposizione messa assieme, ben 11 ore contro le 10 e 30 minuti concesse a M5S, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana, mentre se andassimo a sommare le ore a disposizione del Presidente del Consiglio a quelle dell’intera area di Governo, composta da Partito Democratico, Nuovo Centrodestra e Scelta Civica, arriveremmo a 30 ore e 22 minuti, impiegati, soprattutto, per fare propaganda a favore del Sì riguardo al, quantomeno delicato, Referendum Costituzionale che si terrà, molto probabilmente, nel mese di Novembre. Ancor più grave, rispetto ai dati che arrivano dalle Tv private, è l’evidente squilibrio d’opportunità anche laddove l’informazione dovrebbe essere incondizionata ed esclusivamente a servizio dei cittadini, ovvero in Rai, al contrario ancora assoggettata al Governo e sempre meno libera, soprattutto dopo l’epurazione di Nicola Porro e la chiusura del suo talk di Rai 2 Virus, l’allontanamento di Massimo Giannini dalla trasmissione Ballarò e quello, il più recente e clamoroso, di Bianca Berlinguer, direttrice da sette anni del Tg 3, sostituita da Luca Mazzà, “casualmente” coui che lasciò l’incarico nella trasmisione condotta da Giannini in dissenso con la linea portata avanti dallo stesso giornalista, accusata di essere esageratamente antirenziana. Queste decisioni sono state prese da un direttore generale, Campo Dall’Orto, che appare un fedelissimo del premier (il quale, peraltro, percepisce una super retribuzione annuale, pari a 650 mila euro, ben oltre il tetto massimo di 240 mila fissato per i manager pubblici) e approvate da un Consiglio d’Amministrazione, eletto lo scorso anno secondo i criteri della pessima Legge Gasparri (realizzata in era berlusconiana ad hoc per la lottizzazione), che non risulta nè autonomo, infatti utilizzare l’argomentazione della sua totale indipendenza nelle scelte significa nascondersi dietro ad un dito, nè imparziale, in quanto espressione della maggioranza, con sei membri su nove indubbiamente vicini al Governo, tra cui due indicati direttamente da Palazzo Chigi, la presidente Monica Maggioni e il consigliere Marco Fortis, su diktat del Tesoro.

Vedere nei blitz di viale Mazzini, dato questo quadro della situazione, un tenativo di normalizzazione della Rai è certamente legittimo, infatti tutte le nomine, in ottica Referendum, hanno un chiaro indirizzo politico, esattamente come avveniva in passato mentre i renziani di ferro si improvvisavano paladini del pluralismo d’informazione e si ritenevano fermi sostenitori di una Rai libera dai partiti (probabilmente intendevano tutti a meno del proprio). Sull’ultima serie di nomine d’inizio Agosto, peraltro dettate senza un confronto preventivo sulla linea editoriale, sono arrivate dure critiche dalla Federazione della Stampa, dal sindacato dei giornalisti della Tv pubblica Usigrai, dalle opposizioni in toto e dall’ex segretario dei Dem Bersani, che accusa la propria dirigenza di essere compartecipe dei vecchi vizi, mentre per il consigliere Rai, indicato nel CdA da Sel e M5S, Carlo Freccero queste nomine palesemente monocolore, spacciate per una riorganizzazione interna, riportano il servizio pubblico agli anni ’60, al tempo della Dc di Fanfani, e sono considerate decisioni miopi e prese in modo non trasparente da Miguel Gotor e Federico Fornaro, i senatori della minoranza interna al Partito Democratico che hanno scelto la via delle dimissioni dalla Commissione Vigilanza, in seguito all’estromissione di una personalità autorevole e competente come la Berlinguer (che garantiva un equilibrio sostanziale tra i tempi di parola dei “No” e dei “Sì” sul Referendum), attraverso un’accelerazione agostana difficilmente in buona fede.

Correva l’anno 2002 quando l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, attraverso il cosiddetto editto bulgaro, sollecitava pubblicamente i vertici Rai ad estromettere i giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro e il comico Daniele Luttazzi, accusati di aver fatto un uso criminoso della Tv pubblica, e poco dopo effettivamente allontanati. Rispetto ad allora il premier attuale non ha il gigantesco conflito d’interessi di Berlusconi e non utilizza i modi agghiaccianti dell’ex Presidente, ma, per accrescrere il consenso e non rischiare di cadere in seguito al Referendum sul nuovo Senato, anche Matteo Renzi pare non abbia esitato a mettere lo zampino nelle direttive, non si è risparmiato dall’attaccare in continuazione i giornalisti a lui avversi (specie quelli che non possono essere sollevati dall’incarico) e i talk show che non fanno propaganda dalla sua parte e non hanno aderito alla capziosa narrazione renziana, e sembra non avere la minima intenzione di rendere l’informazione della Tv pubblica realmente libera dalle lottizzazioni e dalle logiche di partito; tutto, di certo, prevedibile dopo le incredibilmente gravi dichiarazioni, datate 2015, di Michele Anzaldi, segretario della Commissione Vigilanza e deputato del Pd, il quale sostenne, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, che c’era un problema con Rai 3, in cui maltrattano, in continuazione, il Governo e che, in tale rete, non avrebbero capito che Matteo Renzi è diventato segretario del Pd e premier, ma non è finita qui, lo stesso Anzaldi, infatti, è stato il primo a scagliarsi contro Giannini, auspicando querele e sanzioni nei suoi confronti, dopo che il conduttore di Ballarò ebbe definito incestuoso il rapporto Boschi-Banca Etruria. Non dimentichiamoci, inoltre, della più che discutibile Riforma Rai approvata a Settembre dal Parlamento che somiglia molto ad una Legge Gasparri 2.0: si concentrano maggiori poteri nelle mani dell’amministratore delegato (dopo la figura del super preside introdotta con la Riforma della Scuola, non poteva mancare la messa in campo del nuovo super a.d.) e si lascia la possibilità al Governo di indicare due membri del CdA su sette totali, e non più nove come previsto fino ad allora, con il Parlamento che dovrà stabilirne quattro.

L’Italia si trova alla 77esima posizione per libertà di stampa, alle spalle di Burkina Faso, Botswana e Nicaragua, nella classifica stilata ad Aprile da ‘Reporter senza frontiere’ e dietro questo piazzamento pesa anche, inevitabilmente, la poca autonomia del servizio pubblico di ieri e di oggi, soggiogato dalla politica e usato, spesso e volentieri, per scopi elettorali. La visione renziana della Rai, in perfetta linea con quella dei governi Berlusconi, è inaccettabile e non può appartenere a chi garantiva un cambiamento radicale e prometteva di non prescindere dal pluralismo d’informazione: “i partiti fuori dalla Tv pubblica” non può e non deve rimanere solamente uno slogan da campagna elettorale, la Rai non è di proprietà delle forze politiche o del Governo, ma dei cittadini italiani.

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Referendum: inaccettabile l’invito all’astensionismo

Domenica si terrà il referendum abrogativo sulla concessione delle estrazioni di idrocarburi in mare entro le 12 miglia marittime (circa 20 km dalla costa), ottenuto da nove Consigli regionali (di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) che hanno depositato le firme necessarie per la consultazione popolare. Il Governo ha stabilito in modo del tutto surrettizio e scorretto di non accorpare il referendum alle elezioni amministrative di inizio Giugno, non permettendo una campagna informativa sufficientemente lunga e, di conseguenza, sarà sicuramente maggiore la difficoltà per raggiungere il quorum, fissato al 50%+1 degli aventi diritto al voto; inoltre il costo di questa operazione di spachettamento raggiungerà una cifra enorme, ossia oltre 300 milioni di euro, un inaccettabile spreco di denaro pubblico, così come risulta decisamente grave e negativo, sotto il profilo istituzionale, l’invito all’astensione, quando, invece, era lo stesso Presidente del Consiglio, nonchè segretario del Pd, Matteo Renzi a richiedere a gran voce, nel 2011, l’Election Day (e, poi, criticare Bersani per non averlo ottenuto) per l’importante referendum abrogativo sull’acqua e sul nucleare. Lascia attoniti anche l’irruzione nella scena del Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano che, qualche giorno fa, ha dichiarato legittima, non una scelta incoerente con il dovere civico e non in contrasto con quanto riportato dall’articolo 48 della Costituzione repubblicana (cui recita che votare è un diritto e, appunto, un dovere) la posizione dell’astensione, in perfetta sintonia con il premier, nonostante entrambi dovrebbero essere i principali depositari delle regole democratiche. Sarebbero stati quanto meno apprezzabili, infatti, un impegno in senso opposto, che rimarcasse e non demolisse l’importanza della partecipazione popolare, costantemente in calo, e una coraggiosa battaglia a viso aperto, seppur per il “no”, accettando il rischio di sconfitta sul piano politico. Per questo, sul tema in questione, aumentano le distanze con la sinistra, in toto, con la minoranza dem, a cui si deve riconoscere il coraggio di aver rifiutato con decisione il diktat del segretario e di dissentire sulla furbesca linea di partito, e con il Governatore della Puglia, anch’esso del Pd, Michele Emiliano, da sempre contro le trivellazioni, che ha puntato il dito contro Renzi, definendolo come un venditore di pentole, il cui invito da pubblico ufficiale sarebbe potenzialmente sanzionabile per l’articolo 98 del testo unico del 1957, confermato dalla Cassazione nel 1985, che vieta la possibilità di indurre gli elettori all’astensione anche per quanto riguarda i referendum.

Recarsi alle urne significa, quindi, combattere il partito dell’astensione e della disinformazione, difendere lo strumento della consultazione popolare (tanto più se si considerano mai legittimate le riforme renziane, essendo stati stravolti il programma delle primarie Pd del 2013 e quello di Bersani con cui e per cui sono entrati in Parlamento i democratici) e cercare di impedire la riuscita del boicottaggio messo in atto da un Governo arrogante, che vive come un pericolo un esito referendario opposto a quello auspicato e preferisce non promuovere la democrazia per questo referendum sulle trivelle con il fine di evitare il pericolo di intralci ma non esita a fare campagna “pro domo sua” per quanto riguarda il referendum costituzionale dell’autunno prossimo (accusando, in modo palesemente incoerente e opportunista, come privi d’argomenti coloro che non voteranno), peraltro trasformato in senso personalistico da un primo ministro non all’altezza del ruolo che ricopre. Il motivo centrale, attorno a cui ruotano i molti altri, per non disertare le urne, però, rimane sempre e solo uno: sfruttare l’occasione per far sentire la propria voce e dimostrare che le scelte calate dall’alto, in questo caso quelle a vantaggio dei petrolieri, non sono accettate.

Votare SÌ per dire NO alle trivelle:

Entrando nel merito, il referendum coinvolge direttamente 21 concessioni (in corrispondenza a 43 piattaforme) che, in caso di vittoria del “sì”, non potrebbero più essere prorogabili (oggi possono essere prolungate fino all’esaurimento del giacimento). Una vittoria del fronte del No Triv non si tradurrebbe in un netto cambio di rotta sulle politiche ambientali (ambito in cui il Governo si è rivelato fallimentare, colpevole in primis di aver scritto il manifesto antiambientalista quale è il Decreto Sblocca Italia), come prospettato da alcuni, in quanto la reale forza del quesito non è particolarmente elevata, ma favorirebbe comunque, come passaggio successivo, investimenti maggiori nelle energie alternative e pulite in tempi più rapidi. Le prime falsità dei sostenitori del “no” o, peggio, di chi invita ad astenersi riguardano la maggiore dipendenza energetica dai paesi esteri, qualora si fermassero le trivelle, il pericolo immediato di perdita dei posti di lavoro (di cui, peraltro, non sappiamo il numero esatto) e l’assenza di tempo necessario per invertire la rotta in ottica verde: in realtà le trivellazioni riescono a coprire meno dell’1% del fabbisogno nazionale di petrolio (poco e di scarsa qualità) e del 3% di gas, in secondo luogo varie concessioni rimarrebbero in essere ancora dieci o, addirittura, diciotto anni (la prima scadrebbe nel 2017 e l’ultima nel 2034), quindi un ampio periodo utile per organizzare e compiere una necessaria e ambiziosa transizione energetica (favorendo un modello d’economia slegato dall’estrazioni di carbonio, come stabilito alla Cop21) e adeguatamente lungo per la ricollocazione dei lavoratori. Per giunta secondo quanto emerge dalla nuova edizione del National Solar Jobs Census, stilato dalla Solar Foundation, i posti di lavoro offerti dall’industria solare, in questo caso statunitense, sono nettamente superiori a quelli che derivano dall’estrazione di combustibili fossili. Certamente, poi, non risulterebbe una perdita rilevante il mancato introito da royalties, le cui aliquote di tassazione, per chi trivella in mare, sono sicuramente ridotte, tra le più basse al mondo: il 10%per il gas e il 7% per il petrolio, senza considerare le inconcepibili franchige e i notevoli incentivi indiretti; inoltre nel 2015 tutte le estrazioni, sia su mare che in terra, hanno prodotto un gettito da royalties pari a soli 352 milioni, ovvero cifra simile a quella sperperata dal Governo per aver rifiutato l’Election Day.

Fermare le trivellazioni significherebbe, dunque, per lo meno, eliminare, nelle fette di mare in questione, la presenza di sostanze chimiche scaturite dalle piattaforme, dannose per le biodiversità, infatti il reale impatto ambientale potrebbe essere notevolmente maggiore rispetto a quello segnalato dal Ministero dell’Ambiente, poichè le rilevazioni risultano non completamente trasparenti e, secondo quanto denunciato da Greenpeace, l’organo istituzionale chiamato a valutare i risultati del monitoraggio sul mare che circonda le piattaforme offshore, cioè l’Ispra, opera, paradossalmente, su committenza della società che possiede le piattaforme oggetto d’approfondimento ENI (secondo i risultati delle ricerche condotte, invece, dalla stessa ong Greenpeace e contenuti nel documento “Trivelle fuorilegge” i parametri ambientali stabiliti per legge sarebbero sforati vicino a oltre il 70% delle piattaforme). Lo stop alle trivelle permetterebbe, anche, di contrastare la subsidenza e l’erosione delle coste, ridurre a zero i rischi di disastri ambientali, seppur non troppo elevati (ma, comunque, non giustificabili) e, soprattutto, indurre il Governo a puntare su una graduale, ma di fondamentale importanza, riconversione energetica volta a tutelare l’ambiente e l’ecosistema e a scommettere su un modello di sviluppo sostenibile che combatta i cambiamenti climatici.

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La libertà passa dai diritti: per una vera discussione sull’eutanasia ancora decenni?

L’Italia è, indubbiamente, uno dei paesi occidentali più arretrati nel campo dei diritti civili e, così come non esiste ancora una legislazione sulle unioni civili e una chiara sulla fecondazione eterologa (non più vietata dopo la sentenza della Corte Costituzionale), tutto tace sul fronte del fine vita, eppure i sondaggi sono chiari: oltre il 75% degli italiani è favorevole all’introduzione del testamento biologico e più della metà vorrebbe vedere approvata una legge sull’eutanasia (nel 2013, secondo Eurispes, erano circa il 70%), dal greco “ευ θανατος”, ovvero dolce morte. Inoltre l’Associazione Coscioni, da sempre impegnata sul tema, raccolse 100 mila sottoscrizioni per una proposta di legge durante il 2013 (più delle 50 mila necessarie per poterla presentare in Parlamento, come specificato nell’art.71 della Costituzione), ma nonostante la volontà di molti cittadini di apertura di una seria discussione e le numerose sollecitazioni da parte di Giorgio Napolitano, durante il primo settennato (soprattutto dopo il caso Piergiorgio Welby) di presidenza e il 18 Marzo 2014 in Parlamento, e di personaggi autorevoli di Camera (la stessa presidentessa Boldrini) e Senato, la politica italiana da quell’orecchio sembra proprio non averci mai sentito e aver chiuso in un cassetto la delicata tematica, per l’assenza di larghi intergruppi parlamentari d’estrazione laica (come, invece, si sta gradualmente formando per la cannabis legale) pronti a portare la battaglia fino in fondo, senza timore degli attacchi e della propaganda da parte delle istituzioni ecclesistiche, che sarebbero in prima fila per demonizzare il nuovo provvedimento (come sta accadendo anche per legge Cirinnà sulle unioni civili, già rinviata dal Governo troppe volte).

Perchè è necessaria una nuova legislazione in merito?

Il testamento biologico, cioè la dichiarazione anticipata del trattamento da ricevere in caso lo stato di lucidità mentale dovesse venire a meno durante una malattia (con la possibilità di delegare eventuali scelte ai familiari), e l’eutanasia attiva, tramite medicinali che accelerano la morte somministrati da un medico, o passiva, ovvero l’interruzione della  cura, in entrambi i casi su esplicita richiesta del malato terminale in grado di intendere e di volere, garantirebbero i fondamentali principi democratici della libera scelta, fino alla fine, e dell’autodeterminazione. L’interrogativo che dovrebbe porsi chi non è condizionato dalla religione è molto semplice: perchè un malato terminale non dovrebbe avere la possibilità di scegliere di non subire e di non prolungare sofferenze atroci e insostenibili senza speranze di guarigione? Sicuramente l’attuabilità dell’eutanasia non sarebbe messa in discussione da un numero esagerato di obiettori di coscienza e ne è dimostrazione il risultato di vari sondaggi (come quello condotto da Consulcesi nel lontano 2007), i quali ci dicono che la maggioranza dei medici sarebbe pronto ad accettare la scelta del malato, così come i collaboratori sanitari (secondo un sondaggio di Torino Medica oltre il 70% degli infermieri del capoluogo piemontese sarebbe favorevole ad una nuova legge).

Quanto bisognerà attendere per una vera discussione?

Sicuramente non è nelle intenzioni dell’esecutivo toccare il tema ed è più che probabile dover attendere parecchi anni prima che la questione riemerga e venga trattata dai rami del Parlamento per cercare di colmare il gap di progresso e diritti con la maggior parte degli stati a noi circostanti, nei quali biotestamento e almeno una tra eutanasia passiva ed attiva sono legali o depenalizzati. Per ora a cercare di limitare l’attesa non può che essere la prosecuzione di iniziative e appelli provenienti dalla società civile, trasversalmente vicina a chi deve, contro volontà, soffrire oltremisura.

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La Legge di Stabilità: un minestrone insipido da DC 2.0

La settimana scorsa è stata approvata la Legge di Stabilità 2016 dal Consiglio dei ministri e sta approdando in Parlamento. Legge con molti aspetti controversi che, ancora una volta, sono in netta contrapposizione agli ideali originari del centrosinistra (provvedimenti mai anticipati da Renzi nell’era pre-premierato e quindi mai legittimati, oltre che dai cittadini, dagli stessi iscritti e militanti del PD), frutto dell’estremo e unico interesse di ampliare il bacino elettorale e delle strette di mano e degli abbracci con Denis Verdini e Angelino Alfano, preferiti, nuovamente, ad un’ala del proprio partito.

In primo luogo verrà abolita la Tasi (poco oltre i 4 miliardi di euro), l’imposta sulla prima casa, e si interverrà sull’Imu agricola e sui macchinari “imbullonati”, il gettito dei quali era interamente destinato ai Comuni, ai quali verrà proibita la possibilità di aumentare le addizionali, obbligandoli al taglio del welfare (peraltro già annunciati almeno 300 milioni di nuovi ingiusti tagli, da sottrarsi ai 670 milioni che scaturiscono dall’allentamento del Patto di Stabilità) se la mancata entrata miliardaria non fosse adeguatamente compensata dai finanziamenti dello stato centrale. Sull’idea iniziale, assolutamente non condivisibile e lesiva del principio costituzionale (art.53) della progressività fiscale, di eliminare la Tasi anche sulle case di lusso e sui castelli adibiti a prima casa, l’inaspettata marcia indietro (sacrosanta) del Presidente del Consiglio Renzi delinea il suo opportunismo, poichè, dopo una lunga campagna di difesa dell’iniziativa (ultraberlusconiana), questa, così come inizialmente formulata, si stava trasformando in un boomerang. La misura rimane comunque contestabile, in quanto sarebbe potuto essere un taglio più selettivo (non può più essere retta la schizofrenia di togliere e reintrodurre in continuazione tale imposta) e le risorse avanzate sarebbero potute essere impiegate per ridurre le tasse che gravano sulle spalle di piccoli imprenditori e artigiani (detassazione con un impatto sicuramente maggiore sull’economia), mentre la Legge di Stabilità rinvia l’alleggerimento dell’IRES, l’imposta sul reddito d’impresa, alla prossima Finanziaria e non prevede ritocchi all’aliquota prevista dal primo scaglione dell’IRPEF. Il tasto dolente della manovra, però, non può che essere la trovata tipicamente di destra (infatti coincide con le proposte di Forza Italia), che favorisce evasione, corruzione, riciclaggio e autoriciclaggio, di innalzare la soglia massima dell’uso del contante da mille a tremila euro, contro la quale si sono scagliati la minoranza dem in toto (Bersani in primis), tutti i soggetti a sinistra del PD e, anche, il commissario anticorruzione Raffaele Cantone. Oltre all’aumento del limite del contante sono ugualmente schiaffi all’intelligenza, incomprensibili e del tutto negativi (disdegnoso se fosse per ricercare simpatie tra i disonesti) l’eliminazione dell’obbligo del bonifico per il pagamento degli affitti e l’alzamento della soglia di punibilità per l’omissione dell’IVA, favorendo e rendendo meno punibile il nero e il sommerso, contro i quali non si dovrebbe esitare a combattere, vista la gravità della situazione italiana per quanto riguarda l’evasione fiscale, cioè 120 miliardi di euro sottratti illecitamente ogni anno al Fisco, che inevitabilmente ricadono sulle spalle di chi paga fino all’ultimo centesimo. Anche i provvedimenti a contrasto della povertà e sulle pensioni risultano deludenti: il primo (400 milioni più 600 per la lotta alla povertà infantile) è davvero scadente e sotto la soglia della credibilità, mentre per quanto riguarda il secondo, il minimo aumento della no tax area e il part-time per gli ultimi anni non possono essere paragonabili ad una seria politica di pensianamento anticipato, finanziata dal ricalcolo delle pensioni retributive sopra i 4/5 mila euro mensili con il metodo contributivo (per l’appunto, non vengono toccate le pensioni d’oro), come preventivato dal Presidente dell’INPS Tito Boeri, che ha espresso il suo disappunto per le scelte del Governo. Passiamo, poi, all’ampio fronte degli interventi necessari non sostenuti, inanzitutto non vengono definitivamente disinnescate le clausole di salvaguardia (aumenti di IVA ordinaria e agevolata e dell’accisa sul carburante), ma solo rinviate al prossimo anno, lasciando una spada di Damocle pendente sopra le nostre teste, ed è alto il rischio che queste aumentino ancora il loro eventuale peso, inoltre sono assenti provvedimenti efficienti a favore del Sud, abbandonato al suo cupo destino, non si concretizza la promessa che Renzi fece nella primavera del 2014, poichè non si sbloccano risorse per le migliaia di imprese che aspettano il pagamento dei debiti da parte della Pubblica Amministrazione, almeno un terzo di questi rimane ancora congelato (la promessa fatta prevedeva che entro Settembre 2014 sarebbero stati tutti saldati), non sono stati fatti piani per una radicale ripresa dell’occupazione giovanile, non si stanziano fondi aggiuntivi per la messa in sicurezza del territorio (evidentemente preferiscono inceneritori e trivellazioni), mentre sono esigui quelli destinati alla terra dei fuochi (150 milioni in tre anni), non se ne parla nemmeno, invece, di finanziare ricerca e innovazione. Unici sprazzi di luce riguardano lo stanziamento di 600 milioni per i super-ammortamenti, infatti verrà data la possibilità di acquistare un bene strumentale e di scaricarlo con il 40% in più di valore, la detassazione dei salari di produttività, il canone Rai in bolletta, se non fosse che il servizio rimane governocentrico, le risorse messe in campo per l’assistenza dei disabili gravi e per la cooperazione allo sviluppo (che negli ultimi anni ha subito tagli forsennati). E le coperture della manovra? Immagino che l’interrogativo sia sorto a tutti, ebbene anche su questo punto il Governo fa un salto nel vuoto, la manovra è per lo più (14,7 miliardi) finanziata in deficit, avendo letteralmente fallito per quanto riguarda i progetti di spending review (accantonato definitivamente il piano, in gran parte lucido e intelligente, di Carlo Cottarelli), che sarebbero dovuti essere concretizzati sulle sacche di veri sprechi della spesa pubblica (che ammontano a 30/40 miliardi), partendo dai tagli agli enti inutili e alle spese eccessive per i beni intermedi, solo minimamente alleggerite, mentre si è preferito fare tagli semilineari su ogni ministeri e lineari sulle regioni (1 miliardo e 800 milioni, a cui seguiranno ulteriori tagli per 3,9 miliardi di euro per il 2017 e 5,4 miliardi per ciascuno degli anni 2018 e 2019), che ricadranno, ancora una volta sul welfare, in particolare sulla sanità (tartassandola) e si aggiungeranno ai 2,3 miliardi di tagli contenuti nel discutibilissimo Decreto enti locali approvato ad Agosto. È evidente la difficoltà dell’esecutivo di trovare fondi, anche al di fuori della spending review, per una politica sull’evasione fiscale che va nella direzione opposta a quella del contrasto e per l’assenza di coraggio, conforme agli ultimi governi, di aumentare massicciamente la tassazione sul gioco d’azzardo, dalla quale si potrebbero recuperare addirittura più di 12 miliardi con l’aliquota al 27,5% (com’era nei primi anni del 2000), rispetto ai soli 500 milioni in più stimati per il 2016, e di prendere in seria considerazione la proposta di legge sulla legalizzazione delle droghe leggere (anche su questo piena sintonia tra Renzi e Giovanardi), che porterebbe nelle casse dello Stato fino a 8,5 miliardi l’anno (per la tassazione su produzione e vendita). Il fatto più disgustoso di tutto, però, rimane la minaccia di Renzi di porre la fiducia anche su questa legge (dopo la clamorosa e più che ingiusta scelta, ai limiti della democrazia, di metterla sulla legge elettorale) in caso ci fossero troppi emendamenti, portandola all’approvazione a colpi di maggioranza e stroncando qualsiasi tipo di discussione e confronto con minoranza interna e opposizioni.

La Finanziaria (definibile minestrone insipido per il gran numero di nuove norme poco o per nulla soddisfacenti), che contiene tanti, troppi, buchi neri e provvedimenti presi a metà, ancora estremamente deboli per far ripartire definitivamente l’economia (non possono bastare 4/5 miliardi di tasse in meno, peraltro finanziati in deficit e con destroidi tagli lineari alla sanità), e solo qualche mossa condivisibile da sinistra, si trasforma, dunque, nell’emblema dell’ormai Governo della DC 2.0, con un Presidente del Consiglio, nonchè segretario del PD, pronto ad ogni compromesso verso destra (sperando non si arrivi al fatale accordo per il Ponte sullo Stretto di Messina) e ad ogni trovata politica estranea alle origini del proprio partito. Ogni legge è una mazzata sempre più grande al buonsenso e al centrosinistra italiano, vero obiettivo di rottamazione da parte di Renzi, e gran parte di questa Legge di Stabilità rimane in linea con le precedenti pessime riforme.

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Riecco il Ponte: sbagliare è umano, perseverare è diabolico

Grandi opere mai terminate, sprechi enormi, appalti truccati e corruzione… Qualche giorno fa Alfano ha trovato la soluzione definitiva a tutto questo, cioè realizzare il Ponte sullo Stretto.

In Italia realizzare grandi opere, specialmente nell’ultimo ventennio, è quasi sempre stato un suicidio, gli esempi sono infiniti (come le opere stesse): non possiamo non partire dalla Tav, infatti il costo originario di 15 miliardi euro è lievitato a 32 miliardi, il triplo rispetto a quanto speso da Spagna e Francia per la stessa opera, e secondo le stime si potrebbe arrivare, addirittura, fino a 57 miliardi complessivi, senza aprire anche l’altro capitolo, quello del forte impatto ambientale; stessa storia per quanto riguarda il Mose di Venezia, tra una tangente e l’altra, per realizzarlo sono già stati spesi cinque miliardi, mentre in Olanda è costato un terzo. Precedentemente troviamo il caso più eclatante di tutti, quello dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria; i lavori cominciati nel 1964 si conclusero nel 1972, per poi riaprirsi nel 1990, per ammodernare il tratto, e non terminare più. Inoltre, inizialmente, furono spesi, per realizzare i 443 chilometri, 368 miliardi di lire, il doppio rispetto al preventivo e, anche in questo caso, sono state molteplici le infiltrazioni della criminalità organizzata. Anche i numeri degli sprechi economici per le ultime grandi manifestazioni ospitate dall’Italia sono inquietanti: ogni anno lo Stato deve pagare 60 milioni di euro per i mutui accesi prima del mondiale di calcio del 1990, per non parlare poi delle strutture rimaste incomplete; similmente nel 2006 le Olimpiadi invernali, svolte a Torino, sono costate 3 miliardi di euro mentre i ricavi sono stati pari ad un solo miliardo. Ultima della lista l’Expò di Milano, la cui fase di costruzione è stata caratterizzata da lunghi ritardi, corruzione, appalti truccati e tanti arresti. Non può che essere spaventosa, quindi, la cifra totale spesa per le grandi opere, solo alcune di queste davvero utili e completate (solo 8 su 100 arrivano a traguardo), infatti nell’ultimo quindicennio lo Stato ha investito 150 miliardi, al netto delle spese per interessi, che potrebbero aggirarsi tra i 40 e i 50 miliardi; sul totale hanno un peso enorme le spese per i rialzi in corso d’opera (assolutamente irresponsabile l’abuso del rischioso massimo ribasso, che non garantisce alta qualità dell’opera e attira l’interessamento, soprattutto al Sud, della malavita). Sembra evidente che le componenti per accantonare definitivamente il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina ci siano tutte ma, invece, poichè per la nostra classe dirigente la razionalità rimane un optional, il presidente del consiglio, nonchè segretario del PD, Matteo Renzi potrebbe valutare la concretizzazione di un altro grande sogno di Silvio Berlusconi, su proposta del Nuovo Centrodestra. Questa volta però l’errore sarebbe fatale, anche perchè sbagliare (riguardo la realizzazione di grandi opere) è umano, perseverare è diabolico. Per anni (e molti anche tutt’ora) si è creduto che le grandi opere potessero essere uno degli unici motori dell’economia e sviluppo del Belpaese, in particolare del Sud, trascurando totalmente, invece, le piccole opere di manutenzione territoriale (puntualmente scartate da Renzi), meno soggette a corruzione, meno a rischio sprechi e sicuramente utili alla collettività (dalla lotta al degrado, alla valorizzazione delle aree verdi e dall’edilizia scolastica all’efficientamento energetico).

Tornando al fantomatico Ponte sullo Stretto, fino ad oggi sono già stati spesi ben oltre 400 milioni di euro tra progetti, studi e voci varie e la sua realizzazione costerebbe (anche se la cifra potrebbe lievitare ancora) 8 miliardi e mezzo (mentre nel 2003 era stata stimata una spesa di 4,7 miliardi), cifra attualmente insostenibile. In caso (e ci auguriamo l’opposto) partissero i lavori per la costruzione dell’opera il rischio di scandali e infiltrazioni da parte delle organizzazioni criminali sarebbe altissimo, ugualmente concreto il pericolo di enormi sprechi che ricadrebbero totalmente sulle spalle dei contribuenti ed è del tutto opinabile che l’impatto sarebbe talmente positivo sullo sviluppo economico del Sud Italia da sostenere una tale spesa, invece di investire gli 8,5 miliardi in settori vitali che necessitano fondi, per esempio nell’istruzione, per il sostegno al reddito o in crediti d’imposta. In Italia la corruzione è il vero cancro della società (costa ai cittadini oltre 60 miliardi), impossibile da estirpare completamente ma combattibile, ovviamente se si vogliono evitare nuovi sciami di scandali non si possono offrire sul piatto d’argento occasioni simili. Secondo alcuni personaggi l’idea propagandistica potrebbe essere stata rispolverata per accaparrere voti in vista delle elezioni regionali e amministrative in Sicilia, in cui appare sempre più probabile la possibilità di un’alleanza PD-Nuovo Centrodestra (a pensar male si fa peccato, ma non sempre…). La speranza che la questione del Ponte sullo Stretto fosse passata di moda, purtroppo, sembra tramontare, quindi l’augurio è di un’attenta riflessione del Governo perchè costruirlo rappresenterebbe un grande schiaffo all’intelligenza e alla razionalità.

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Renzi e gli espedienti per le coperture

Renzi continua con gli annunci ma le coperture scarseggiano, non scordiamoci che le clausole di salvaguardia sono sempre pronte a scattare

Oggi la necessità principale del Governo è quella di trovare una decina di miliardi entro il 2016 per non far scattare le clausole di salvaguardia, scongiurando l’aumento dell’IVA agevolata dal 10% al 13% in due anni, di quella ordinaria dal 22% al 25,5% in tre anni e l’aumento dell’accisa sul carburante per un totale di 74 miliardi di tasse in più nel triennio 2016-2018, che ancora pendono sulle teste degli italiani ed equivarrebbero a 250 euro in più a famiglia solo nel 2016, cifra simile alla media degli esborsi per l’Imu-Tasi, per arrivare ad un totale di 791 euro totali. Il disinnesco di questa bomba ad orologeria non è per niente scontato per il buco di oltre 700 milioni lasciato dalla bocciatura da parte dell’Unione Europea della Reverse Charge (l’inversione contabile) sulla grande distribuzione, per quello equivalente lasciato dall’incostituzionale Robin Tax sulle compagnie petrolifere, per la spesa di circa 2 miliardi per stabilizzazione di 100 mila insegnanti precari (47 mila entro Settembre e circa 55 mila durante l’anno scolastico) e per il bonus, costato anche questo circa 2 miliardi, che ha rimborsato ai pensionati una parte del maltolto per l’incostituzionale blocco della perequazione (la prossima grana sarà la spesa per rivalutare i contratti, bloccati incostituzionalmente dal 2009, degli statali, a partire dal prossimo anno). Oltre all’impegno di evitare questo lugubre scenario, in cui verrebbe soppressa la minima ripresa attuale, frutto soprattutto della concatenazione straordinaria, peraltro mal sfruttata, di prezzo del petrolio ai minimi, Quantitative Easing di Mario Draghi, Expò e svalutazione dell’Euro (tra poco anche il Giubileo), aver confermato di prorogare il bonus degli 80 euro e la decontribuzione per gli imprenditori che assumono con il nuovo contratto a tutele crescenti o che stabilizzano i dipendenti precari, il premier Renzi ha, qualche settimana fa, in uno stile ultraberlusconiano (tema che ho approfondito in un articolo precedente, “Il Renzusconi”), promesso l’abolizione della Tasi, cioè la tassa sulla prima casa che vale poco più di 4,5 miliardi (si arriva a 5 miliardi con l’intervento sull’Imu agricola e sui macchinari “imbullonati”), e un piano complessivo di detassazione quinquennale da 45 miliardi. In caso non fosse il solito annuncio propagandistico e decidesse di concretizzare le promesse fatte (comunque discutibile, per esempio, l’abolizione della Tasi, che varrebbe anche per i proprietari di case di lusso, e non iniziare dal rilancio delle medie e piccole imprese), il problema da porsi sarebbe da dove il segretario del Partito Democratico e il Ministro dell’Economia Padoan credono di reperire le risorse necessarie, poichè sembrano mancare, oggi come oggi, dai sette ai dieci miliardi, a causa di un errore di valutazione riguardo la flessibilità concessa sui parametri europei, per poter coprire il tutto (si prevede una manovra da oltre 25 miliardi); i tagli lineari (sfiorano solo le sacche di sprechi nel settore) di Yoram Gutgeld alla sanità per 2,3 miliardi contenuti nel Decreto enti locali (riduzione di esami e prestazioni sanitarie), approvato ad inizio mese, ci danno una chiara indicazione: la Spending Review si concentrerà, ancora una volta, solo marginalmente sui veri sprechi ma massicciamente sugli enti locali, già stremati, sul trasporto pubblico, sulla sanità, sulle detrazioni fiscali e, molto probabilmente, le microtasse aumenteranno ancora. Guarda caso il gettito della Tasi è interamente destinato ai Comuni e con la sua abolizione Renzi potrà tranquillamente scaricare la responsabilità di una ulteriore pressione fiscale o servizi scadenti sugli stessi, facendo rientrare dalla finestra le tasse uscite dalla porta. La strada dello sforamento del tetto 3% sul rapporto deficit/pil per maggiori risorse non dovrebbe essere perseguita ma in caso contrario, senza ulteriori interventi, significherebbe un maggiore indebitamento rischiando di beneficiare dell’azione solo nel breve periodo. Questi sono espedienti tutt’altro che trasparenti per ottenere le coperture necessarie, mentre non ci sono novità nel fronte della lotta all’evasione, che corrisponde a 120 miliardi di euro all’anno, il Governo continua a lasciare invariata la tassazione sul gioco d’azzardo, dalla quale si potrebbero recuperare addirittura più di 12 miliardi con l’aliquota al 27,5% (com’era nei primi anni del 2000), così come non viene nemmeno valutata la proposta di legge sulla legalizzazione delle droghe leggere (anche su questo piena sintonia tra Renzi e Giovanardi), che porterebbe nelle casse dello Stato fino a 8,5 miliardi l’anno (per la tassazione su produzione e vendita). Nel frattempo l’Italia cresce solo dello 0,2%, contro uno 0,8% della Grecia, la disoccupazione generale ricomincia a crescere, quella giovanile (al 44,2%) e debito pubblico sono ai massimi storici, il Sud è abbandonato al proprio cupo destino e ancora migliaia di imprese aspettano il pagamento dei debiti da parte della Pubblica Amministrazione, infatti almeno un terzo di questi rimane ancora congelato (Renzi promise che entro Settembre 2014, circa un anno fa, sarebbero tutti stati saldati); interventi da 5/10 miliardi di detassazione non bastano assolutamente. La miriade di slogan di Renzi da #Italiariparte a #lasvoltabuona cozzano profondamente con la realtà dei fatti, per questo il PD, secondo alcuni sondaggi, potrebbe essere finito, anche a causa del mal di pancia di una fetta di elettori di sinistra che non si riconosce nelle pessime riforme da DC 2.0, negli attacchi continui e dialogo inesistente con la minoranza dem e nell’alleanza con Verdini, addirittura sotto il 30% dei consensi (-11% rispetto al risultato ottenuto alle Europee del 2014).

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Riforma del Senato: quando il nuovo non significa progresso

Appena sarà terminato il consueto stallo di Ferragosto si riaccenderà la discussione sul nuovo Senato, la cui approvazione non sembra assolutamente scontata tra un’infinità di emendamenti e critiche, che partono dalla (come al solito inascoltata) minoranza dello stesso Partito Democratico. La riforma del Senato, a lungo spacciata da Renzi per abolizione, infatti, ha molte, troppe, contraddizioni; inanzitutto il Senato sarà inelettivo e completa a perfezione l’altrettanto discutibile legge elettorale, l’Italicum (su cui, peraltro, era stata posta la fiducia, unici precedenti nel 1923 con il fascismo e nel 1953, la cosiddetta legge truffa, con la DC al governo), approvata ad inizio Maggio: i consiglieri regionali eleggeranno i senatori, che saranno cento tra consiglieri stessi, sindaci, che dovrebbero già essere impegnati 24 ore su 24 per l’amministrazione delle loro città, e nominati dal Capo dello Stato, i quali non godranno di indennità aggiuntive ma dell’odiatissimo privilegio dell’immunità parlamentare (la Camera dovrà pronunciarsi sulla richiesta d’arresto di un senatore). Il ddl Boschi-Renzi attribuisce (o meglio, lascia al Senato inelettivo), comunque, funzioni importanti, seppur in numero assolutamente minore, quali, ad esempio, il potere di discussione e approvazione delle riforme costituzionali, il diritto di ratifica dei trattati internazionali, la possibilità di eleggere due giudici su quindici della corte costituzionale e, in seduta comune, il Presidente della Repubblica. Il bicameralismo perfetto sarà, quindi, superato, ma siamo davvero sicuri che ciò era così mostruoso e dannoso? Nonostante anche l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia dato il suo “via libera” alla riforma, augurandosi il superamento del bicameralismo perfetto al più presto, e le diffuse accuse di inefficienza, nella precedente legislatura (2008-2013) erano state emanate 391 leggi, di cui 301, circa i 3/4, solo con la doppia lettura (la Camera non ha ritenuto di modificare alcunchè), quindi secondo l’analisi dell’associazione Giustizia e Libertà, possiamo affermare che nel 77,8% dei casi il bicameralismo ha funzionato come un semplice controllo di qualità, nel 19,4% ha, invece, introdotto utili correzioni o integrazioni nel corpo legislativo e nel rimanente 2,8% è stato un opportuno strumento di approfondimento e riflessione, e non è stato sinonimo di lentezza legislativa. Inoltre il Parlamento italiano ha deliberato 71 leggi nel 2011 e 102 nel 2012, quello francese rispettivamente 111 e 82, quello spagnolo 50 e 25, quello inglese 25 e 23, quello tedesco 153 e 128; la produttività del bicameralismo perfetto italiano, dunque, rimaneva al di sopra della media dei principali parlamenti europei. Sempre secondo Giustizia e Libertà il bicameralismo perfetto, inoltre, permette di discutere due leggi riguardanti argomenti diversi contemporaneamente nei due rami del Parlamento, mentre, per esempio, in un monocameralismo (tra i maggiori parlamenti dell’Europa occidentale lo è solo il Portogallo) non potrebbero sovrapporsi, rallentando l’iter legislativo. Potremmo comunque pensare ad un riordino delle competenze, superando di fatto la parità assoluta tra Camera (che rimarrà composta da 630 deputati, alla faccia del risparmio) e Senato, ma, assolutamente, non rendendo inelettivo il secondo e se è vero (com’è vero) che partecipazione è libertà, togliere ai cittadini la possibilità di eleggere i propri rappresentanti in Senato e lasciare la Camera (a fronte dell’Italicum) con la maggioranza di nominati (per i “partitini” entreranno in Parlamento solo i capilista bloccati), con una lista (il premio alla lista e non alla coalizione è l’anticamera del presidenzialismo) che può prendere la maggioranza dei seggi e tutto il potere con un 11% in meno a quello dovuto o vincendo al ballottaggio nonostante, magari, rappresentasse solo un 20% dei votanti al primo turno, non sarà una svolta autoritaria, ma sicuramente una riduzione del potere decisionale dei cittadini e della rappresentanza in Parlamento. La proposta della relatrice Finocchiaro dell’elezione semidiretta, cioè listino bloccato dalle segreterie, permettendo ai cittadini solo di concorrere nella scelta dei senatori, è sullo stile del “tanto peggio, tanto meglio”. L’augurio è di una svolta, approvata la riforma, nell’eventuale referendum costituzionale, che Renzi ha promesso di indire per la conferma da parte dei cittadini del nuovo Senato. La riforma del Senato segue le altre targate Renzi, che proclama come sinonimo di innovazione, rottamazione e progresso, ma quelli sono solo slogan, in realtà le sue riforme, dal manifesto antiambientalista del decreto Sblocca Italia, che incentiva la trivellazione, la realizzazione di nuovi inceneritori e nuove autostrade, alla (non) Buona Scuola e dal demansionamento del lavoratore ai nuovi tagli lineari alla sanità sono l’esempio del nuovo che non porta un miglioramento e ha anche il coraggio di ritenersi di sinistra (è stato lui a  sfaldarla) mentre è in perfetta sintonia e a braccetto con Verdini e Giovanardi, con i quali presto ultimerà la DC 2.0.

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Le pensioni d’oro e l’equità intergenerazionale

Nel mese scorso la disoccupazione giovanile ha raggiunto i massimi storici, il 44,2% dei giovani tra i 15 e i 24 anni, infatti, è disoccupato (+1,9% rispetto al mese precedente), peggio solo, dall’inizio delle rilevazioni, nel primo trimestre del 1977, e negli ultimi otto anni (prima dell’inizio della crisi) la percentuale è più che raddoppiata mentre, secondo uno studio del 2014 dell’Ocse, il 56% dei giovani che, invece, trova lavoro è precario (+30% rispetto al 2000). Il Rapporto sullo stato sociale ci dice anche che la pensione media si ridurrà sempre più rispetto al salario medio, passando dal 45% attuale al 33% nel 2036. Siamo davanti ad un evidente problema di assenza di equità intergenerazionale, in quanto giovani precari (che, paradossalmente, con i loro contributi pagano le pensioni d’oro) o disoccupati potranno godere di una pensione davvero misera nel migliore dei casi, non arrivarci proprio nel peggiore, anche perchè nel 2050, quando la Riforma Fornero sarà totalmente a regime, l’età minima pensionabile sarà di 69 anni e 9 mesi, mentre era di appena 60 anni per gli uomini e 55 per le donne (ovviamente con un minimo di anni di contributi) prima del 2011. Oggi le pensioni superiori a 5000 euro mensili pesano per più di 13 miliardi sul sistema pensionistico, considerando invece tutti gli assegni sopra i 3000 (erogati a un pensionato su sei) questi pesano per 45 miliardi, e in media gli stessi pensionati ricevono quasi il 40% in più rispetto a quanto versato, questo a causa del pessimo sistema di calcolo retributivo. La pensione ottenuta con il metodo retributivo era calcolata in misura percentuale, in rapporto alla media di retribuzione percepita solo durante gli ultimi anni di lavoro; sappiamo bene che i salari percepiti negli ultimi anni di carriera lavorativa sono mediamente maggiori e, purtroppo, si è capito troppo tardi che forse il retributivo era un privilegio insostenibile (l’Italia spende, per la previdenza, il 16,5% del PIL, appena meno della Grecia), che ha anche contribuito, nel lungo periodo, all’ingigantirsi del debito pubblico italiano (nel 2011 è stato sostituito totalmente con il metodo contributivo, con cui si riceve, come pensione, quanto percepito in media durante tutti gli anni lavorativi). Addirittura c’è un pensionato, ovvero l’ex manager e ingegnere elettronico della Telecom Mauro Sentinelli, che percepisce dall’INPS, come riportato in un’edizione del mese di Giugno del Corriere della Sera, circa 91 mila e 300 euro lordi mensili (più di un milione annuo), di cui quasi 54 mila (più della metà) mai versati; se fosse stato applicato il sistema contributivo la sua enorme pensione sarebbe di circa 37 mila euro lordi mensili. In prima linea, tra le pensioni d’oro, troviamo gli insopportabili vitalizi, ottenuti dai parlamentari e consiglieri regionali, che concedono, come pensione, il doppio o il triplo in più rispetto a quanto realmente versato durante la carica e quelli degli ex politici pesano sui conti pubblici più di 250 milioni di euro; per esempio l’ex Presidente del consiglio Giuliano Amato (come riportava Ballarò in un approfondimento) ha finora percepito dall’INPS, grazie al suo vitalizio, più di tre volte e mezzo quanto realmente versato durante tutta la carriera lavorativa. Tutti sembrano d’accordo nel mettere mano a questi squilibri, da sinistra a destra, ma alla fine sembra sempre prevalere la parolina magica: diritto acquisito. Nel nuovo piano pensionistico il presidente dell’INPS ed economista Tito Boeri pianifica una maggiore flessibilità in uscita previo penalità, l’erogazione di un reddito minimo agli ultracinquantacinquenni disoccupati, la possibilità di versare contributi aggiuntivi su base volontaria, l’estensione del contributo di solidarietà e, infine, il fondamentale ricalcolo degli assegni pensionistici, presumibilmente sopra i 3000/4000 euro lordi mensili, con il metodo contributivo, di cui lo stesso Boeri assicura l’attuabilità; gli ultimi due interventi sono finalizzati a ridurre o eliminare il gap tra i contributi versati e ciò che viene mensilmente incassato (le proposte di introdurre direttamente un tetto massimo alle pensioni di 5000 euro, oltre a risultare incostituzionale, non garantisce al pensionato d’oro di ricevere nemmeno quanto versato), per quanto riguarda le pensioni maggiori, e da questi il recupero sarebbe di almeno 7 miliardi di euro in un anno. Dopo questo sarebbe fondamentale revisionare anche le pensioni da guerra, da cui si potrebbe recuperare, secondo quanto riportato nel piano di spending review dell’ex commissario Cottarelli, almeno 300 milioni e le, non poche, pensioni triple e quadruple. Tra le proposte di Boeri, o meglio il piano di reinvestimento del risparmio proveniente dai tagli, non troviamo, però, la necessaria riduzione generale del cuneo fiscale (meno oneri contributivi su tutti i contratti a tempo indeterminato), che garantirebbe salari potenzialmente maggiori e respiro alle imprese, e una soluzione definitiva al problema degli esodati. Ancora lontani, per assenza di fondi immediati, dal poter sperare in una riduzione razionale dell’età pensionabile, almeno in specifici settori lavorativi e dove deve essere naturale il turnover. La speranza è in una ripresa sostanziosa, anche se davvero improbabile vedendo i piani del Governo Renzi, che ridia un futuro chiaro a tutti i giovani, soprattutto per gli atipici, affinchè possano avere una stabilità lavorativa e possano ottenere una pensione decente, ma nel frattempo è davvero assurdo che il peso di porzioni di assegni pensionistici d’oro mai versati ricadano sulle loro spalle. Oggi i privilegi che costano miliardi non vanno più bene…

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Renzi, dimmi con chi Verdini e ti dirò di chi sei

Renzi e la DC 2.0

Nel caso di Renzi e del suo Governo il proverbio “dimmi con chi vai e ti dirò di chi sei” è pienamente azzeccato; si era capito fin da subito, cioè dalla riconferma del Nuovo Centrodestra all’interno della stessa maggioranza del Governo Letta, preferendo ciò a nuove elezioni, e dalla netta rottura con l’alleato delle precedenti elezioni Sinistra Ecologia e Libertà, che la strada di Matteo Renzi sarebbe stata inclinata a destra. Qualche giorno fa Verdini, l’ormai ex fidato braccio destro di Berlusconi, ha abbandonato Forza Italia per dare vita all’Area Liberal Popolare ed entrare nella maggioranza, a sostegno del Governo; questo dopo la fuoriuscita dal Partito Democratico da parte di Civati a inizio Maggio, di Fassina, dopo l’approvazione della Riforma Giannini, e di altri esponenti della minoranza, con cui non era mai esistito un dialogo, a causa della visione autoritaria e centralistica del segretario e premier, e non erano mai stati fatti compromessi (come non sono fatti oggi con gli esponenti della minoranza dem che non si sono scissi), preferendo instaurarli, invece, con l’NCD di Alfano, Giovanardi, Formigoni, Lupi e Azzollini, il quale mercoledì è stato salvato dall’arresto per il ricatto da parte del suo partito di rompere la maggioranza (infatti l’NCD ha mandato sotto il Governo in due votazioni minori, precedentemente, come segnale d’avvertimento), così come erano state, per la stessa ragione, respinte le mozioni di censura contro il sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione, coinvolto nell’inchiesta di Mafia capitale e in particolare nelle indagini sul Centro di accoglienza di Mineo, e inizialmente con Berlusconi, attraverso il (poi saltato) Patto del Nazareno. L’entrata nell’area di Governo di Denis Verdini, quindi, sembra significare solamente una cosa: “la sinistra ci infastidisce, può anche uscire, mentre è ben accolto il centro destra”. Come dichiarato dall’ex berlusconiano, lui insieme a Renzi darà definitivamente vita al Partito della Nazione (o Democrazia Cristiana 2.0), nel quale, ovviamente, non può mancare il democristiano per eccellenza Pier Ferdinando Casini. Alle primarie del 2013 Renzi si presentò come “rottamatore” e portatore di progresso, ma, a ragion veduta, ha rottamato solo chi rifiutava il progetto di completo snaturamento del PD (si è candidato per quest’ultimo solo perchè sapeva bene che Berlusconi sarebbe stato ancora per molto tempo il leader di Forza Italia) mentre non hanno niente a che fare le sue riforme con il concetto di “progresso”: l’Italicum, nel segno della poca rappresentanza e dei capilista bloccati, lo Sblocca Italia, o meglio “sblocca trivelle”, il nuovo Senato (ancora non approvato), peggio di quello di oggi in quanto non elettivo, la Buona Scuola, in cui la maggior parte dei veri problemi vengono solamente sfiorati (la lista sarebbe lunga, lunghissima) sono tutte riforme che introducono solo novità, spacciate per progresso (Renzi cerca di far credere che coloro che sono contrari alle sue riforme sono conservatori, poichè unisce “riforma” a “nuova norma migliorativa”). Il Partito Democratico nel 2007 era nato con ideali e visione ben definiti e chiari, così come la collocazione nello scacchiere politico, cioè, rispettivamente, socialdemocrazia ed ecologismo e centrosinistra. Ora quel PD non esiste più (a meno di un’improbabile svolta al congresso del 2017), viene continuamente attaccato dallo stesso Renzi, che dice essere stato il partito delle tasse, e quegli ideali vengono difesi solo da un piccolo gruppetto di “separati in casa”, che reclamano la totale incoerenza con il programma di Bersani (il quale ritroviamo solo nelle proposte del ripudiato SEL) per il quale sono stati eletti nel 2013 e per il quale ora si trovano in Parlamento (mentre il programma Renzi non è mai stato approvato dagli italiani per governare). Alla nascita del PD sarebbe stato davvero inimmaginabile che un suo segretario, un giorno non troppo lontano, avrebbe potuto abolire l’articolo 18 o realizzato riforme per incentivare le trivellazioni. Gli errori della classe dirigente della sinistra, a partire da quella del PDS per arrivare a quella del PD di Bersani, sono stati tanti, troppi, e, uniti all’attaccamento della maggior parte degli italiani al politico forte, con molto carisma e decisionista e alla nostalgia per la DC, hanno spianato la strada, nell’era post-Berlusconi, all’iniziale plebiscito nella legittimazione del renzismo, acclamando l’ex sindaco di Firenze come salvatore della patria; ora, però, la musica sta cambiando: i risultati non arrivano (o sono minimi), le promesse e gli annunci surclassano ciò che è stato concretizzato, sindacati, insegnanti e parte dei pensionati hanno perso completamente fiducia e l’area di sinistra si ritrova spiazzata mentre quella a destra preferisce maggiore demagogia, il consenso cala e tutto è in bilico, ma la prosecuzione delle sue politiche e il rimarcamento delle sue posizioni sembra evidente. Renzi tramonterà a braccetto con la destra.

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Il Renzusconi

Correva l’anno 2008 quando Silvio Berlusconi, di nuovo al governo, aboliva l’ICI sulla prima casa (detassazione da 2,2 miliardi) e fu durante la campagna elettorale del 2012 quando ripropose la battaglia contro l’IMU (nel frattempo reintrodotta dal governo Monti, anche con l’appoggio dello stesso coerentissimo PDL), promettendone (grazie al solito populismo riuscì a raggiungere in extremis Bersani e il centrosinistra) il rimborso (4 miliardi di euro). Oggi Matteo Renzi, con lo stesso metodo, ovvero il cosiddetto propagandistico patto con gli italiani, risbandiera come rivoluzione l’abolizione che confermerà nel 2016 della Tasi, l’attuale tassa sulla prima casa che produce un gettito annuo da meno di 5 miliardi. Sappiamo che in tema di promesse, puntualmente non mantenute o contrariamente solo tramite espedienti, ci sanno fare entrambi (anche le politiche portate avanti sono quasi sovrapponibili, o meglio alcune riforme dell’ex democristiano, Jobs Act e legge elettorale in primis, corrispondono a quelle sempre sognate da B.) e cosí come nel 2008 Berlusconi creò un buco di bilancio per abolire l’ICI (oltre all’ingiusto taglio selvaggio su istruzione e servizi), il prossimo anno Renzi dovrà trovare risorse, con la spending review sui veri sprechi messa da parte, ripudio per i 22 miliardi che si potrebbero recuperare tramite la legalizzazione delle droghe leggere e la tassazione maggiore sul gioco d’azzardo (13 miliardi se la tassazione fosse al 27,5%), l’ipotesi di sforamento del tetto del 3% deficit/pil smentita e la lotta limitata che farà all’evasione fiscale (120 miliardi sulle spalle degli onesti), tramite i soliti rialzi alle microtasse e tagli a detrazioni, enti locali e trasporti, ricompensando tutto di nascosto; tutto ciò se non dovessero (e non è per niente scontato), ad inizio 2016, scattare le clausole di salvaguardia, oltre 50 miliardi di tasse in più sulle spalle dei cittadini in tre anni, per l’aumento di IVA ordinaria e agevolata, accisa sul carburante e per il taglio delle agevolazioni fiscali, dando un’altra mazzata enorme alla nostra economia e radendo al suolo il consenso in continuo calo nei confronti del PD e del Governo. La ripresa economica è ancora al minimo e l’effetto della riduzione dell’IRAP, del bonus degli 80 euro in più in busta paga e della decontribuzione in caso di stabilizzazioni (l’87% finora) o nuove assunzioni (solo il 13%) non basta, infatti il PIL in crescita è frutto, per lo più, della svalutazione dell’Euro, del Quantitative Easing di Draghi, dell’Expò di Milano e del costo del petrolio ai minimi storici (concatenazione straordinaria), e sicuramente quasi 5 miliardi in meno di tasse, nettamente meno del costo del provvedimento degli 80 euro, se non fossero poi controbilanciate con nuove o, peggio, oggi fosse solo uno spot populista e senza fondamenti di realtà, potrebbero rappresentare una boccata d’ossigeno, ma ancora troppo poco (forse pochissimo) per pensare ad una svolta fiscale (potremmo invocarla con 25/30 miliardi di tasse in meno in un anno, partendo da ceti meno abbienti e piccoli/medi imprenditori e finanziandoli alla luce del sole da una seria lotta all’evasione fiscale e da tagli agli sprechi, questi ultimi corrispondono ad almeno 60 miliardi, mai realmente toccati, tra enti inutili, F35, fondi stanziati per grandi opere inutili, pensioni d’oro, partecipate e spese eccessive sui beni intermedi). Inoltre abolire la tassa sulla prima casa significa esentare da imposte anche quelle di lusso e di pregio, i cui proprietari probabilmente non hanno grandi problemi nel pagamento, e, poi, nell’immediato, l’impatto positivo sull’economia sarebbe minore rispetto a un taglio su IRPEF o IRES, cioè sul reddito e non sul patrimonio (ma tanto ciò che importa per il segretario del PD e capo del Governo è togliere la tassa più odiata per bloccare il declino di consenso causato da una serie di incredibili errori e riforme che non piacciono a nessuno). L’inquietante Renzusconi è sempre più una figura realistica…

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